La musica napoletana perde una delle sue voci. James Senese è morto oggi, all’età di 80 anni, dopo un mese di ricovero all’ospedale Cardarelli di Napoli in rianimazione per una polmonite. Le sue condizioni, già gravi da alcuni giorni, erano ulteriormente peggiorate fino al decesso avvenuto nelle ultime ore. La sua scomparsa segna, in un certo senso, la fine di un’epoca fatta di note vibrate dal suo sax e collaborazioni con mostri sacri italiani e internazionali: da Bob Marley a Gil Evans, dagli Art Ensemble of Chicago a Tullio De Piscopo e Pino Daniele. In un post sui social, l’amico Enzo Avitabile scrive: “Non bastano parole per un dolore cosi’ grande ma solo un grazie! Grazie per il tuo talento, la dedizione, la passione, la ricerca. Sei stato un esempio di musica e di vita. Un amico per fratello, un fratello per amico. Per sempre”.
Sassofonista, compositore, voce, simbolo: è stato l’anima di una città intera, un uomo che ha fatto della propria diversità una forma d’arte. Figlio di un soldato afroamericano e di una donna napoletana, cresciuto nei vicoli del dopoguerra tra le baracche di Miano, era l’incarnazione vivente di una Napoli meticcia, dolente e fiera. Il suo suono, nervoso e caldo, era una lingua a sé: jazz, funk, blues, dialetto, rabbia, fede. Il suo sassofono aveva il timbro della città cher amava: viscerale, vissuto, pieno di luce e crepe.
Con Napoli Centrale, fondata nel 1975 insieme a Franco Del Prete, aveva inventato un genere prima ancora di saperlo. L’idea di fondere la tradizione partenopea con il groove del jazz e la tensione del rock: un Neapolitan Power che avrebbe cambiato tutto. Brani come Campagna o Ngazzate sognate restano ancora oggi inni di libertà e identità.
Nel 1977 per la produzione di Qualcosa ca nu’ mmore, ingaggia Pino Daniele, allora ancora sconosciuto al basso. E negli anni d’oro del movimento, Senese è stato fratello d’arte proprio di Pino, Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Tony Esposito: una generazione di musicisti che voleva «fare Napoli moderna» e ci è riuscita, trasformando la città in un laboratorio musicale unico: «Quelli erano anni in cui suonavamo per vivere, ma anche per respirare», ricordava.
Ha suonato in Nero a metà, e quel sax che apre Je so’ pazzo è un marchio di fabbrica: il suono dell’orgoglio e dell’inquietudine. Dopo gli anni del successo sono arrivati altri capitoli, la carriera solista, altre band, nuovi esperimenti. Senese non aveva mai smesso di suonare dal vivo, fino all’ultimo tour: «Sono un uomo nero nato a Napoli che vuole dire quello che sente», diceva. Nel 2016 ha pubblicato ’O sanghe, forse il suo disco più intimo (con la collaborazione ai testi di Franco Del Prete, ha vinto la Targa Tenco come miglior album in dialetto), e nel 2021 James is Back, manifesto di un ritorno che era più spirituale che musicale.
James Senese – ha scritto Gino Castaldo su Repubblica – è quell’incrocio tra America e Napoli che ha incendiato la musica italiana. Ha collaborato con tutti, e poi ancora da solo, dischi su dischi, cocciuto, a testa bassa, con un sassofono che si portava dietro da quando aveva dieci anni.
