sabato 2 Agosto 2025

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

DAVID GROSSMAN E GAZA: “Un dolore per me devastante dover accostare Israele e fame: è in atto un genocidio”

Nel corso di meno di ventiquattro ore, a Gaza sono morte oltre cento persone. La cifra, letta su “Haaretz”, segna l’inizio di un’intensa intervista della “Repubblica” a David Grossman, uno degli scrittori israeliani più lucidi e impegnati del nostro tempo. “Sento l’urgenza interiore di fare la cosa giusta. È il momento di farlo”. Parole pronunciate con dolore, ma con la ferma convinzione che tacere, oggi, significherebbe diventare complici.

Grossman non si nasconde dietro il linguaggio diplomatico. Parlando delle morti a Gaza, ammette: “Sto male…Sentire accostare Israele alla parola ‘fame’, considerando la nostra storia, è devastante. E mi manda in confusione: non dal punto di vista morale, ma personale”. Il colpo più duro arriva, però, quando evoca l’accusa che pesa come una pietra: genocidio.

Per anni Grossman si è rifiutato di pronunciare questa parola. Ma ora, dice, non può più trattenerla, dopo quello che ha letto sui giornali, dopo le immagini che ha visto e dopo aver parlato con persone che sono state lì. “Con immenso dolore e il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo di fronte ai miei occhi”. E aggiunge: “Genocidio è una parola valanga: una volta che la pronunci, non fa che crescere, come una valanga appunto. E porta ancora più distruzione e più sofferenza”. Il punto per lo scrittore, in realtà, non è soltanto semantico o giuridico: è umano, profondamente umano. È la constatazione di un collasso morale.

Grossman torna alle origini della crisi, a quella che definisce “la maledizione di Israele”: l’Occupazione dei territori palestinesi iniziata nel 1967. “Ci ha corrotti. Il potere assoluto ha fatto di noi qualcosa che non volevamo diventare”. Un’analisi spietata, che non risparmia né lo Stato né i suoi cittadini. “Siamo caduti nella tentazione del nostro potere. E ora ne paghiamo il prezzo”.

Grossman non solleva Hamas dalle proprie responsabilità. Ricorda come l’uscita di Israele da Gaza non fu un atto di generosità, ma una scelta obbligata. “I palestinesi avrebbero potuto trasformarla in un luogo fiorente, e forse oggi anche la Cisgiordania sarebbe libera. Ma hanno ceduto al fanatismo”. Il conflitto, afferma, è il risultato di due leadership immature, incapaci di costruire una realtà diversa.

Grossman denuncia il silenzio della maggioranza israeliana con amarezza. “Dopo il 7 ottobre, molti hanno abbandonato i valori della sinistra e si sono rifugiati nella paura. È più facile. Ma così facendo, Israele si isola sempre di più e rischia di cadere in una trappola da cui sarà difficile uscire”. È il paradosso di un Paese che, per sentirsi sicuro, finisce col perdere anche gli ultimi appoggi internazionali.

Grossman è consapevole dei rischi. Le pressioni su intellettuali e artisti israeliani crescono, anche all’estero. Ma la sua posizione è chiara: “Non sarà questo a impedirmi di dire quello che penso. In momenti come questi, è ancora più importante farlo”. La sua voce si alza, dunque, non solo contro l’Occupazione, ma anche contro il conformismo e il silenzio imposti dal clima politico.

Nonostante il fallimento di decenni di trattative, Grossman ribadisce la sua fedeltà all’idea dei due Stati. “È l’unica possibilità. Non perfetta, certo, ma realistica”. E accoglie positivamente l’idea lanciata dal presidente francese Macron di riconoscere lo Stato palestinese: “Credo sia una buona idea e non capisco l’isteria che l’ha accolta qui in Israele. Magari avere a che fare con uno Stato vero, con obblighi reali, non con un’entità ambigua come l’Autorità palestinese, avrà i suoi vantaggi. È chiaro che dovranno esserci condizioni ben precise: niente armi. E la garanzia di elezioni trasparenti da cui sia bandito chiunque pensa di usare la violenza contro Israele”.

Infine, Grossman risponde a chi accusa gli intellettuali israeliani di non aver fatto abbastanza. “Prendere di mira chi ha combattuto per settant’anni contro l’Occupazione è ingiusto. La nostra reazione è stata lenta, certo. Ma naturale. Ci abbiamo messo tempo a capire, a trovare le parole. Ma il nostro cuore è nel posto giusto: dentro una realtà che non ha più cuore”.

Fonti: agenzie di stampa, La Repubblica, La7, Haaretz

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