venerdì 4 Luglio 2025

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

IN GINOCCHIO DA TRUMP

Paramount ha pagato. Sedici milioni di dollari. Non per una colpa, né per una condanna. Ha pagato per paura. E questo basta per misurare quanto sia cambiata l’America. Un tempo era il Paese dove i giornalisti sfidavano i presidenti. Oggi è un Paese in cui le aziende dei media preferiscono arrendersi in silenzio. Dove si paga per evitare ritorsioni. Dove la libertà di stampa è subordinata agli affari, e la verità si misura in termini di esposizione legale.

La causa – scrive Massimo Jaus da New York – era l’ennesima offensiva di Trump: CBS avrebbe manipolato un’intervista a Kamala Harris, favorendola. Un’accusa fragile, demolita dai fatti. Stessa domanda, stessa risposta, montaggi diversi per esigenze televisive. Nessun inganno. Solo un taglio di routine. Ma nell’America di oggi, i fatti contano meno della paura di dispiacere a chi comanda.

Paramount non ha nemmeno provato a resistere. Ha firmato l’assegno e voltato pagina. Perché? Perché sta negoziando la fusione con Skydance Media, un’operazione che dipende dall’approvazione della FCC. E la FCC, nella nuova era trumpiana, non sarà più un arbitro imparziale, ma un braccio operativo del potere. Meglio piegarsi subito che finire stritolati dopo. Nel frattempo, attorno alle redazioni è calato il silenzio. Non solo nei media, ma anche negli studi legali. Chi ha difeso testate sgradite a Trump è finito nel mirino. Minacce, campagne diffamatorie, pressioni anonime. Alcuni avvocati hanno ricevuto telefonate minatorie. Altri sono stati messi alla gogna sui social. Il messaggio è chiarissimo: chi prova a difendere il giornalismo sarà isolato, screditato, punito. È la nuova normalità. La strategia della paura. E funziona.

E poi c’è lo stile Trump. Quello del palazzinaro anni ’80, bullo in giacca e cravatta. Bancarotte a raffica, casinò falliti, appartamenti con superfici triplicate nei documenti bancari e dimezzate nelle dichiarazioni fiscali. Il classico gioco delle tre carte, versione immobiliare. Talmente spregiudicato che perfino Mazars, lo studio che per anni gli ha certificato i bilanci, si è sfilato: non sono affidabili, ha dichiarato. E dietro le quinte, per anni, c’era Michael Cohen, il “fixer”: colui che minacciava, pagava, occultava, aggiustava. Finché ha rotto il silenzio anche lui.

E insieme a Cohen, a proteggere l’immagine pubblica di Trump, c’era anche David Pecker, l’ex editore del National Enquirer, che comprava il silenzio di chi voleva parlare — ex amanti, dipendenti, testimoni scomodi — per poi nascondere tutto in un cassetto. Il trucco si chiamava “catch and kill”: compra, insabbia, cancella. Ma la rete di protezione non si fermava al gossip: adesso si estende ai gangli del potere giudiziario. Emil Bove, uno dei suoi avvocati personali, è stato magicamente nominato vice ministro della Giustizia. Alina Habba, procuratrice ultra-loyalist, promossa a guida della procura federale del New Jersey. Todd Blanche, anche lui legale di fiducia, diventato deputy attorney general. E chi invece ha avuto l’ardire di indagarlo? Via, epurato, fatto fuori. Una giustizia a geometria variabile, piegata al culto del capo, dove le promozioni si guadagnano con la fedeltà, non con la legge. E funziona. Nel 2024 era toccato ad ABC: altri 15 milioni. Ora la CBS. Domani chi? CNN? MSNBC? ProPublica? Le redazioni locali che ancora fanno inchieste?

Paramount (possiede canali tv anche in Italia) non ha difeso il giornalismo. Ha protetto i propri interessi. E ha lasciato i reporter in trincea, senza copertura. Le dimissioni del produttore Bill Owens e della presidente Wendy McMahon parlano da sole. Hanno capito che l’azienda ha mollato. E con lei, la propria missione. Non ci sono giustificazioni. Né da parte di Paramount, né da parte di chi continua a fingere che sia solo un caso isolato. Non lo è. È un precedente. Ed è già diventato un metodo: il potere che denuncia, i media che pagano, il pubblico che perde.

Trump ha capito che non serve vincere. Basta minacciare. Basta intimidire. Basta far costare troppo la verità. È una strategia. E sta funzionando. La stampa americana ha due scelte: inginocchiarsi o alzare la voce. Ma chi si inginocchia una volta, difficilmente si rialza. E chi tace, ha già perso. Il giornalismo non muore per censura. Muore per codardia.

Massimo Jaus
Massimo Jaus, romano. Negli Stati Uniti dal 1972. Giornalista professionista dal 1974. Vicedirettore del quotidiano America Oggi dal 1989 al 2014. Direttore di Radio ICN dal 2008 al 2014. È stato corrispondente da New York del Mattino di Napoli e dell’agenzia Aga.
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