di Piero Di Antonio
— Trent’anni fa Srebrenica, oggi la spaventosa guerra in Ucraina e l’altrettanto spaventosa pulizia etnica nella Striscia di Gaza. I commenti inondano i media per condannare, esacrare, ma senza agire. Siamo spettatori di immense tragedie altrui, come se le campane a morte non suonino mai per noi. E’ il tempo degli anniversari e dei bilanci di mesi in cui le nostre convinzioni vengono messe ogni giorno a dura prova.
Chi poteva immaginare l’involuzione di Israele, unico Paese laico nel martoriato Medio Oriente, finito in mano a una cricca di estremistri religiosi di Destra (andate a leggere che cosa dicono e che cosa fanno gli uomini al governo, con la Bibbia in mano e il mitra a tracolla)… Dalla Russia di Putin c’era da aspettarselo, ma dai nostri fratelli ebrei per i quali abbiamo combattuto contro i rigurgiti dell’antisemitismo, no. Il disagio c’è, inutile negarlo, ma non possiamo rifugiarci nell’estenuante gioco dell’antisemitismo o essere costretti a negare sempre la nostra vicinanza ad Hamas e ai tagliagole islamici, per non vedere e inorridire dinanzi alla realtà di quelle macerie a Gaza. I veri antisemiti sono quei giovani di Fratelli d’Italia immortalati e smascherati dall’inchiesta di FanPage. Sono al governo.
E che dire delle prepotenze di un presidente prepotente in un Paese prepotente? No, in verità siamo indifesi o perlomeno insufficienti. Non abbiamo la profondità di pensiero e di azione necessari per opporre pensieri e concetti altrettanto forti al cieco militarismo e alla strabordante retorica del nazionalismo che, per dirla con Samuel Johnson, è pur sempre “l’ultimo rifugio del farabutto”, oppure, scomodando Umberto Eco, il rifugio “di chi non ha principi morali e si avvolge di solito in una bandiera” e dove i bastardi “si richiamano sempre alla purezza della loro razza. L’identità nazionale è l’ultima risorsa dei diseredati” (da Il cimitero di Praga).
Ci aiuta a capire il meccanismo della sopraffazione e della crudeltà (una sorta di matematica dell’orrore opposta al calore umano) Albert Camus. Le sue parole pesano come mille editoriali e discorsi. Parole dette e scritte ottanta e più anni fa, sembrano scritte ieri sera. Foto di Henry Cartier-Bresson da New Yorker (Magnum).
La crisi dell’uomo *
(PdA) – Il 29 marzo 1946, Albert Camus tenne un discorso agli studenti della Columbia University di New York. Il tema affrontato dal grande scrittore franco-algerino: la crisi dell’uomo. Una benemerita pubblicazione della Bompiani Overlook ci dà il completo resoconto delle parole di Camus raccogliendo inoltre le conferenze e i discorsi tenuti dall’autore della Peste dal 1937 al 1958. Camus, in quell’occasione, partì citando quattro episodi relativi al periodo nazi-fascista.
1. Nell’edificio della Gestapo di una capitale europea, due accusati ancora sanguinanti sono legati dopo una notte di interrogatori, mentre la portinaia del palazzo è scrupolosamente intenta a fare le pulizie, con il cuore in pace avendo senz’altro già consumato la prima colazione. Al rimprovero di uno dei torturati, la donna risponde indignata con una frase che in francese suonerebbe più o meno così: “Quello che fanno i miei inquilini non è affare mio”.
2. A Lione uno dei miei compagni viene fatto uscire dalla cella per un terzo interrogatorio. Poiché durante un interrogatorio precedente gli hanno strappato le orecchie, porta una benda intorno alla testa. L’ufficiale tedesco che l’accompagna è lo stesso che ha già assistito ai primi interrogatori, e ciononostante è proprio lui a domandargli con una sfumatura d’affetto e di sollecitudine nella voce:” Allora, come vanno queste orecchie?”.
3. In Grecia, come rappresaglia per un’azione dei partigiani, un ufficiale tedesco si accinge a fucilare tre fratelli che ha preso come ostaggi. La vecchia madre si getta ai suoi piedi e lui accetta di risparmiarne uno, a condizione che sia lei a sceglierlo. Poiché la donna non riesce a decidersi il plotone spiana i fucili. Alla fine sceglie il maggiore, perché aveva famiglia, ma nello stesso tempo ha condannato gli altri due, come voleva l’ufficiale tedesco.
4. Un gruppo di donne deportate fra le quali si trova una nostra compagna viene rimpatriato in Francia attraverso la Svizzera. Appena entrate in territorio svizzero, le donne scorgono un funerale civile. E di fronte a quello spettacolo scoppiano in un irrefrenabile riso isterico. “E’ così che trattano i morti qui” dicono.
Quali sono allora questi sintomi della crisi dell’uomo per Camus? Li sintetizzo: il terrore come conseguenza della degenerazione dei valori, per cui un uomo non viene giudicato in funzione della propria dignità ma del suo successo. Per Camus occorre ritrovare la libertà mentale.
Poi l’impossibilità della persuasione, tanto la Ss quanto l’ufficiale tedesco non rappresentavano più un uomo né gli uomini ma un istinto elevato a idea o a teoria. L’uomo capace di interessarsi, premuroso, alle orecchie che poco prima ha strappato, quell’uomo non sa cos’è la passione, la sua è matematica.
Inoltre la sostituzione dell’oggetto naturale con il modulo, cioè con il dilagare della burocrazia. E l’uomo viene relegato, con questa macchina astratta, alla solitudine. A forza di carte, di uffici e di funzionari prende forma un mondo da cui scompare il calore umano. Un uomo entra in contatto con un altro uomo se non attraverso il labirinto delle formalità burocratiche. L’ufficiale tedesco che blandiva le orecchie strappate riteneva di poterlo fare perché, quando le aveva strappate, ciò rientrava nelle sue funzioni e, di conseguenza, non poteva essere un male.
Ormai si muore, si ama e si uccide solo per procura. E’ quel che si chiama una buona organizzazione. La crisi è, inoltre, la sostituzione dell’uomo reale con l’uomo politico. Non ci sono più passioni individuali possibili, non soltanto passioni collettive, cioè passioni astratte. Quel che conta non è rispettare o risparmiare la sofferenza di una madre, quel che conta è far trionfare una dottrina. E’ evidente, dice Camus, che tutti questi sintomi si riassumono in uno solo: il culto dell’efficienza e insieme dell’astrazione. Ciò spiega perché oggi in Europa l’uomo conosce soltanto la solitudine e il silenzio. L’unica alternativa concessa è essere vittima o essere carnefice.
Se non si crede a nulla, allora nulla ha senso, allora tutto è permesso e nulla ha importanza. Qual è quindi la conclusione? Che si possono mandare milioni di innocenti nei forni crematori come ci si può dedicare anima e corpo alla cura dei lebbrosi. Che si possono strappare le orecchie con una mano e accarezzarle con l’altra. Che si possono fare le pulizie davanti ai torturati. Che si possono onorare i morti così come si possono gettare nell’immondezzaio. Tutto si equivale… e ha ragione colui che trionfa.
* da Purgatorio Italia