di Piero Di Antonio
— Un fantasma si aggirava da tempo a New York, la capitale del mondo e di tutto, dalla ricchezza smisurata e ostentata alla povertà estrema, entrambe ben visibili – a meno di vederla con gli occhi del turista – nei locali e nei luoghi dove tutto fa tendenza oppure nei rifugi dei senzatetto e dei senzadollari.
Il candidato dem, un alieno che Trump oggi fermerebbe nell’isola degli immigrati nella baia di Ellis Island, aveva le sembianze di un giovane sulla trentina, barba, ben vestito, mente ed eloquio veloci, con addosso la determinazione accumulata da immigrato dall’Uganda, padre marxista, come dire un bestemmiatore in chiesa, e madre indiana, regista di fama. Di lì a poco avrebbe sconfitto l’elite di New York, disarmandola e riuscendo nell’impresa – così scrivono i giornali made in Usa – di rassicurare parte dell’establishment senza perdere consensi nella sua base.
Un giorno – e qui occorre dare sfogo all’improvvisazione non molto distante, comunque, dal vero – il nostro giovane eroe, Zohran, incontra giovani come lui. Infelici come lo possono essere solo coloro che si dibattono e sono costretti ad arraggiarsi in una metropoli nervosa, veloce, mai ferma, sfiancante e illusoria, con l’unico credo legato alle banconote e al grande luogo comune americano che si portano appresso: la felicità. Per meglio dire, la ricerca della felicità, inserita nella Costituzione ma insita nelle aspirazioni di tutti gli animi del mondo.
E che ti comincia a dire e a fare questo Mamdani? “Amico mio, sei contento di come vivi in questa giungla? Che cosa ti riserverà il futuro? Non ti senti per caso escluso da questa comunità di milionari e miliardari in limousine?”. Continuerà incontrando altri ragazzi disillusi ma ancora legati allo studio, convinti di farcela e soprattutto di incidere. Erano stanchi di aspettare le briciole che, secondo il ritornello dei propagandisti dell’American way of life, sarebbero cadute dal banchetto dei miliardari. Campa cavallo, si sono detti a un certo momento i gruppi via via diventati più numerosi. Un fiume in piena. E alla fine la decisione: “Basta starsene a casa quando la storia, fuori, la fanno e la vincono i soliti privilegiati”.
Erano e sono gli under 35 che faticavano e faticano a spostarsi con i mezzi pubblici nella giungla dei servizi mai sentiti come essenziali, costretti a pagare affitti da gran hotel per stanberghe, orribili a vedersi, nelle arrugginite periferie, dove a tutte le ore si sentono lo sferragliare dei treni e le sirene della polizia.
A quel punto, riuscendo a catalizzare l’attivismo di migliaia di ragazzi e a concentrarlo su alcuni problemi che dovevano essere sanati, Mamdani non era più per l’establishment un fantasma. Era diventato visibile. Per dirla alla Bersani-maniera, la mucca era già nel corridoio. Troppo tardi però per correre ai ripari e fermarla. Con un sindaco socialista, musulmano, immigrato, New York si sarebbe trasformata da Grande Mela a Grande Mela Rossa. Così è stato.
Il candidato dem si è imposto subito nei sondaggi facendo suonare campanelli d’allarme per primo a Donald Trump, poi ai ricchi newyorchesi, poi ai repubblicani e ai dem, i due eterni pilastri della storia americana, gonfia di retorica ma anche cruda, sbrigativa e a tratti feroce. Il tutto con centinaia di video girati per strada e nei quartieri dimenticati subito immessi in Rete, con migliaia di interviste ai nuovi affluenti del voto davano il la all’irruzione sulla scena politica, per troppo tempo dominata da autentici tromboni. E poi tanti comizi, sempre più animati dagli esclusi dal grande banchetto che i miliardari allestivano nella metropoli delle opportunità grazie a raffinati meccanismi di elusione delle imposte, o sgravi fiscali concessi con generosità senza pari.
L’immigrato ugandese ha vinto le primarie costringendo all’angolo un vecchio attrezzo del sistema, Andrew Cuomo, schiatta politica sempre in piedi. I Dem lo hanno tirato fuori per costrastare un 34enne che se ne andava in giro per le strade di New York a parlare con migliaia di persone a far capire che era finito il tempo degli endorsement, ovvero del sostegno (interessato) delle persone e dei politici influenti.
Era il tempo giusto di aggredire i problemi di una città diventata ormai invivibile, esclusiva, quasi privata, che mai si era posta il problema degli ultimi. New York, la città che non dorme mai, ha preso sottogamba coloro che di lì a poco sarebbero entrati, compatti, nel meccanismo elettorale, rompendolo. Per troppo tempo la città dove si è sempre detto che tutto era possibile si era rifiutata, nonostante sindaci che si definivano progressisti, di dedicare tempo per tutelare i diritti dei più deboli, degli ultimi arrivati, dei giovani, e dar corpo ai loro sogni di una vità migliore.
Ma colui che provocherà il terremoto politico non si è fermato a scuotere soltanto le giovani coscienze, ma ha detto e ripetuto con chiarezza esemplare che da sindaco avrebbe costruito migliaia di alloggi popolari, per far abbassare in questo modo i prezzi degli affitti stellari dando un colpo agli avidi immobiliaristi (uno si è addirittura insediato alla Casa Bianca) che amano volare in elicottero sopra i loro possedimenti in città; avrebbe favorito l’apertura di supermercati popolari (una parola tornata d’attualità), negozi di vicinato per famiglie bisognose di acquistare prodotti alimentari a basso prezzo; avrebbe reso gratuiti i trasporti urbani; e, udite udite, una bestemmia: avrebbe tassato i ricchi, il 2 per cento in più per chi guadagna un milione di dollari. Lo scrivevano finanche negli striscioni (“tassare i ricchi”) durante le manifestazioni.
Ai piani alti dei grattacieli di Manhattan la paura si è trasformata in terrore, e in molti hanno fatto l’unica cosa che sapevano fare, senza mai sforzarsi di comprendere quel che di nuovo stava avvenendo nei piani sottostanti: hanno messo mano ai libretti degli assegni per inondare di dollari il candidato ex dem, oggi indipendente: il rassicurante Cuomo, nonostante le ombre sul suo passato non cristallino. Milioni gettati al vento, la marea non si sarebbe fermata.
La fortuna del neo sindaco, guardate che combizione, è stata anche l’aver incontrato una giovane donna, genitori portoricani, ma nata nel Bronx, Alexandria Ocasio-Cortez, una cattolica senza i fanatismi che la religione ti incolla addosso. Per pagarsi gli studi e tirare avanti faceva fino a qualche anno fa la cameriera in un bar. Forse ha preparato anche un espresso per il giovane Mamdani, non lo sapremo mai, ma di sicuro sarebbe la sceneggiatura fantastica per un film sulla nuova American way of life nell’era Maga. Sappiamo però che nel giovane immigrato musulmano, sia AOC, sia l’anziano ma vitale senatore socialista Bernie Sanders hanno visto il personaggio che avrebbe potuto scardinare il sistema di potere arrogante, persecutorio e fanatico impersonato da Trump.
Lo hanno appoggiato con l’entusiasmo di ragazzi alle prime armi della politica ma ben consci dell’obbiettivo da colpire. La New York dei miliardari nascosti nelle limousine con i vetri oscurati non ha capito che sotto i suoi occhi si stava mobilitando la generazione Z, la generazione dei nati a cavallo del nuovo secolo. Hanno detto che avrebbero votato e lo hanno fatto in quel martedì del 4 novembre 2025, arrivando a quadruplicare i numeri del voto anticipato. New York, per un momento ci fatto dimenticare le smargiassate di Trump, costretto da Mamdani ad alzare il volume della Tv per ascoltare le parole da neosindaco, ci ha fatto assistere a una rivoluzione giovanile che forse contagerà il resto dell’America e del mondo, con la speranza di vederla in Italia. Sarebbe la rivoluzione, con l’arma del voto, dei nostri figli. Non la restaurazione dell’eterno potere di chi ha troppo, di coloro che parlando e occupandosi sempre di affari non si accorgono di non avere figli ma solo eredi.