di Piero Di Antonio
— Luciano Spalletti esonerato dopo la batosta in Norvegia. Ha detto che nonostante la figuraccia sarebbe restato alla guida della Nazionale. In pratica voleva la conferma da commissiario tecnico da solo. Il capo della Federcalcio, Gravina, ha colto il problema che affligge il calcio italiano, non da oggi, dicendo: “Bisogna ritrovare l’attaccamento alla maglia azzurra”. Semplice, no? Siamo al dunque, a una banalità data in pasto a milioni di tifosi delusi, lanciata più che altro per nascondere la mediocre e fallimentare realtà. Altro che ricerca delle cause…
Attaccamento alla maglia non vuol dire proprio nulla, non ti farà mai vincere le partite o quantomeno ti consentirà di dimostrare che sei all’altezza delle sfide. L’Inter è stata travoltà dal PSG non perché aveva in campo giocatori non attaccati alla maglia. é stata travolta perché gli altri in campo portavano altri valori tecnici e tanta freschezza e divertimento.. Se non hai capacità anche umane per eccellere resti sempre quel che sei: un vanagloriso che si aggrappa in continuazione alla grandezza del passato, traendone l’effimero “tirare a campare”. Nello sport come nella vita. Avete presente quante volte in Italia l’informazione e il dibattito pubblico fanno ricorso al Rinascimento? Ebbene, il pallone stavolta si è sgonfiato a furia di far tirare calci ai palloni gonfiati.
L’Italia ha perso, e non da oggi, classe, eleganza nei modi, nel linguaggio e nei concetti, è approssimativa sia nella ricerca, sia nell’innovazione. Non sa più che cosa sia la sobrietà, con scarsa propensione all’elaborazione di strategie nei vari campi della vita, che sarebbe poi ciò che viene chiesto a una classe dirigente. C’è sempre un arabesco in agguato, per dirla con Flaiano, al posto di analisi più veritiere, sincere e semplici. E, soprattutto, manca del coraggio e della visione indispensabili per affrontare il futuro.
Ricicla gli stessi mandarini di sempre, insuperabile nel mettere da parte (o tagliare) le teste che sporgono per intelligenza e talento. Ciò in nome della falsa uguaglianza. Mai come ora il calcio è lo specchio del Paese, scrutato o raccontato ogni mattina attraverso la Gazzetta dello Sport, che però non gioca e quindi non farà mai gol. Dilettantesco, superficiale, scontato, indifferente, a tratti feroce, come sa esserlo una qualsiasi curva arrabbiata di ultrà.
Nessuno, però, che dia giusta importanza a un fenomeno che da qui a poco ci travolgerà: migliaia di ragazzi andranno dove varrà la pena stare, recidendo il legame con la propria terra e la propria città. Lo stanno facendo anche i calciatori. Impoverandoci e impoverendo il calcio. Torneranno, sì, torneranno, ma con tutta probabilità per riabbracciare la mamma e non perdersi il pranzo di Natale.
Per la Nazionale si fanno i nomi di Ranieri e Pioli. Brave persone, ma sempre con l’esperienza del nonno, al quale tutti vogliono bene, ma con visioni del passato, mentre il futuro è già domani mattina.
Domanda: ma tra milioni di commissari tecnici è poi così difficile individuare un selezionatore che sappia far entrare in questo mondo divenuto irrespirabile aria fresca? e soprattutto che sappia imporre uno stile diverso, nuovo, che diventi un’avanguardia?
Visto che non ci facciamo mancare nulla, gloriosi club – Spal (con il grande fascino dell’acronimo, sconosciuto ai Tacopina di turno: Società Polisportiva Ars et Labor), Brescia (ci giocava un certo Baggio), Triestina (la città di Nereo Rocco) – non si sono iscritti ai rispettivi campionati. Sono tecnicamente falliti. Ripartiranno dai dilettanti. Non sembri ardito l’accostamento con la Nazionale italiana. Anche in città con tradizioni di tutto rispetto scorre meno la linfa che dovrebbe pervadere il calcio, alimentare le passioni che suscita e far crescere il talento.
Com’è possibile che città sviluppate di regioni sviluppate non sappiano più attrarre o coivolgere personaggi di spessore in grado di condurre o gestire un club di calcio? Si possono azzardare due ipotesi, ovviamente confutabili: o sono finite le opportunità che uno sport condotto nelle prime file sa offrire, oppure non c’è più traccia della passione e della competenza. Non è, comunque lo si guardi, uno scenario confortante. Equivale soltanto a presagire un futuro di depressione, o, peggio, del tirare a campare.