di Marco Giustiniani
WASHINGTON – La Casa Bianca non riservava questi onori dai tempi in cui Donald Trump trasformò la politica in scenografia. Cavalli neri, trombettieri in uniforme, un sorvolo di sei caccia in formazione a V sul cielo di Washington, le bandiere saudite accanto a quelle americane lungo la recinzione Pennsylvania Avenue. Mohammed bin Salman, tornato negli Stati Uniti per la prima volta dal 2018, è stato accolto come un sovrano più che come un principe ereditario. E lo Studio Ovale, scintillante di ori nuovi e di oggetti accumulati negli ultimi mesi, sempre più simile al negozio di un rigattiere di lusso, ha completato il quadro.
Fin dall’inizio la giornata aveva assunto un tono irreale: due leader che si presentano come grandi amici, un tappeto rosso degno di una visita di Stato, un’agenda piena di accordi militari e d’investimento. E una tensione crescente, pronta a esplodere alla prima domanda difficile. Bastava che un giornalista evocasse il fantasma di Jamal Khashoggi, il dissidente ucciso e smembrato nel consolato saudita di Istanbul, per far scattare la furia del presidente.
“C’erano molte persone a cui non piaceva quel signore di cui state parlando. Le cose succedono”, ha risposto Trump, con un tono glaciale, quando un reporter ha ricordato che la CIA, e anche i servizi britannici, attribuirono l’ordine dell’omicidio direttamente a Mohammed bin Salman. “Non ne sapeva nulla. Non c’è bisogno di mettere in imbarazzo il nostro ospite” ha risposto Trump. Il principe ha mantenuto una calma quasi studiata: “È doloroso. È stato un enorme errore. Abbiamo fatto tutto il necessario per indagare”. Ovviamente i responsabili non sono mai stati trovati.
La scena non era nuova ma aveva un sapore diverso: il principe saudita, un tempo trattato come un paria dalla comunità internazionale, ora veniva riabilitato pubblicamente dal presidente degli Stati Uniti. E Trump, consapevole di avere bisogno di mettere in mostra alleati potenti, ha cercato di proteggere l’immagine del suo ospite da ogni domanda imbarazzante.
Ma a incrinare l’atmosfera ci hanno pensato le domande sull’altra ombra che segue il presidente ovunque vada: Jeffrey Epstein. Una giornalista di ABC News ha chiesto delle pressioni per la pubblicazione dei dossier, e Trump è esploso. “Il problema non è la domanda, è la tua attitudine. Sei una persona terribile. Una reporter terribile”, ha urlato. Poi ha minacciato di togliere la licenza ad ABC, “le vostre notizie sono false e dovreste essere indagati” e ha chiamato in causa Brendan Carr il presidente della FCC, l’ente federale che controlla e concede le licenze radio televisive, uno dei suoi più fedeli alleati regolatori.
È stato un crescendo che ha ricordato episodi recenti. Il “Quiet, quiet piggy”, rivolto alla reporter di Bloomberg, Catherine Lucey, sull’Air Force One, è tornato a circolare sui social mentre il presidente collezionava nuovi scontri con la stampa. Un filo rosso che unisce insulti, delegittimazioni e minacce, l’arsenale politico che Trump usa quando i fatti diventano scomodi, quando non sa, o non vuole, rispondere alle domande cruciali.
In mezzo a queste scene, Mohammed bin Salman è rimasto composto. Il principe aveva obiettivi concreti: consolidare la cooperazione sulla difesa, spingere per l’acquisto di quasi 50 F-35, un dossier che ha già provocato tensioni con Israele, preoccupata di perdere il proprio vantaggio militare regionale, e siglare accordi su AI, minerali strategici e tecnologia nucleare civile. Obiettivi più realistici ora che Trump ha riportato Riyad al centro delle sue priorità geopolitiche.
Ma al di là della diplomazia, la visita ha gettato nuova luce sui legami economici personali tra la famiglia Trump e il Golfo. Gli investimenti sauditi negli Stati Uniti, circa 600 miliardi di dollari annunciati a maggio, sono stati celebrati dal presidente come un trofeo politico. Bin Salman ha rilanciato affermando che arriveranno ad un triliardo. Nel frattempo, la Trump Organization è in trattative per entrare nel mercato immobiliare saudita; Dar Al Arkan, partner saudita della famiglia, ha lanciato un progetto in criptovalute per investire in immobili col marchio Trump; e la società di private equity di Jared Kushner ha ricevuto 2 miliardi di dollari dal fondo sovrano saudita.
Quando una giornalista ha chiesto se questi affari rappresentino un conflitto di interesse, Trump ha risposto in modo secco: “Non ho nulla a che vedere con questo. Non so nulla degli affari di famiglia. Non me ne occupo”. Poi, come se la domanda fosse un affronto diplomatico, ha aggiunto: “Non devi mettere in imbarazzo il nostro ospite”.
La giornata si è conclusa con una cena di gala alla Casa Bianca, preludio a un vertice sugli investimenti al Kennedy Center. Il principe saudita, riabilitato a pieno titolo sulla scena internazionale, ha ottenuto ciò che voleva: visibilità, protezione politica, un’apertura massiccia di Washington ai suoi piani industriali. Trump, a sua volta, ha ottenuto quello di cui ha sempre bisogno: essere al centro del palcoscenico, anche quando il copione si incrina e le domande sul passato tornano a bussare.
Ma nei luccichii dello Studio Ovale, dietro la scenografia barocca e gli attacchi ai giornalisti, resta un punto ineludibile. La diplomazia dei tappeti rossi ha un costo: normalizza l’impunità, cancella la memoria di un delitto politico e intreccia gli affari privati di una famiglia con gli interessi strategici degli Stati Uniti. È il prezzo della politica di questa Casa Bianca, che trasforma l’Ufficio Ovale in un palcoscenico personale dove le ombre, Epstein, Khashoggi, i conflitti d’interesse, per ora non scompaiono, ma vengono semplicemente accecate da luci più forti.
