mercoledì 10 Settembre 2025

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

LETTURE PER L’ESTATE

TAYLOR SWIFT SI SPOSA

La superstar mondiale del pop Taylor Swift e il giocatore  di football, vincitore del Super Bowl, Travis Kelce si sposeranno. La coppia ha annunciato il fidanzamento ufficiale con una serie di foto con uno sfondo da fiaba su Instagram. Kelce sta in ginocchio sotto un arco di rose al centro di un giardino. “Il tuo insegnante di inglese e il tuo insegnante di ginnastica si sposano”, era scritto nella didascalia del post congiunto.

Una foto in primo piano, inoltre, mostrava l’enorme anello di fidanzamento, un diamante taglio brillante rotondo proveniente da una vecchia miniera incastonato in oro giallo, secondo Vogue. Lo stesso Kelce ha collaborato con Kindred Lubeck di Artifex Fine Jewelry per disegnare l’anello.

Swift, 35 anni, indossava un abito Polo Ralph Lauren color crema con righe nere e tacchi a spillo color cuoio, abbinato a un orologio Cartier Santos Demoiselle Quartz tempestato di diamanti, mentre Kelce, anch’egli 35 anni, ha scelto di abbinare alla sua futura sposa un maglione blu navy Polo Ralph Lauren con pantaloncini cachi e mocassini.

La coppia ha iniziato a frequentarsi nel 2023, confermando la loro storia d’amore verso la fine dell’anno dopo mesi di speculazioni. Inizialmente Kelce ha raccontato di aver provato – senza successo – a dare a Swift il suo numero dopo aver assistito a uno dei suoi concerti dell’Eras ​​Tour, arrivando persino a regalarle un braccialetto dell’amicizia, in linea con la tradizione di Swift. Ma è rimasto “deluso” quando le cose non sono andate secondo i piani.

Mentre circolavano voci su una sua possibile relazione, Swift ha perfino modificato il testo delle sue canzoni durante i concerti per alludere al suo fidanzato: “Il karma è il ragazzo dei Chiefs”, per esempio.

«It’s a love story, baby just say yes», canta nella sua hit “Love Story”. E alla fine «sì» l’ha detto anche lei, scrivono i giornali americani. Nessuna indiscrezione sulla data del matrimonio. Per il momento Taylor pensa alla sua musica: il prossimo 3 ottobre lancerà il suo dodicesimo album. Travis ha fatto la prima mossa, mettendosi in contatto con il team di Taylor. Quest’ultima era indecisa sul da farsi, ma si è fidata della parola di Andy Reid, coach della squadra di Travis. Da quel momento non si sono più lasciati, diventando una delle coppie più amate dello showbiz. E presto saliranno all’altare.

BRICS E AFRICA / L’alleanza degli esclusi dal sistema Mondo

di Meraf Villani *

Thomas Sankara, nel suo discorso alle Nazioni Unite del 1984, auspicava la nascita di un nuovo ordine economico internazionale che desse diritto ai Paesi del Sud globale di «essere parte delle discussioni e delle decisioni che riguardano i meccanismi regolatori del commercio, dell’economia e del sistema monetario su scala mondiale». Dopo più di quaranta anni siamo ancora in una realtà internazionale che è ben lontana dall’accogliere le istanze e le necessità del Sud globale. Poiché lo status quo non cambia e non accenna a cambiare, si rende necessario pensare a sistemi alternativi di unione, condivisione e progettualità. È il caso dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), Paesi in maggioranza provenienti dal Sud globale che, nonostante le diversità culturali, geografiche, geopolitiche e geostrategiche, si sono uniti per dare vita a un’unione e a una struttura che sappia rispondere alle necessità degli «esclusi dal sistema mondo» (Enrique Dussel).

Il continente africano si riconosce e si è riconosciuto ancora di più nelle aspirazioni portate avanti dal blocco dei BRICS in occasione del suo diciassettesimo summit tenutosi a Rio dal 6 al 7 luglio 2025. Questa condivisone di visioni è naturale perché l’Africa è il continente che più di tutti ha sofferto, ha vissuto e vive tuttora sulla sua pelle il peso dell’esclusione e dell’egemonia dello straniero sulla propria testa, terra e beni. Non c’è da stupirsi, pertanto, che i leader dei Paesi africani presenti al vertice di questo anno abbiano ribadito, come già fatto in altre occasioni del summit con il blocco dei BRICS, la necessità che il sistema internazionale cambi. Questo anche alla luce del fatto che le istituzioni di Bretton Woods nacquero in un momento storico in cui la maggior parte del Sud globale si trovava ancora sotto il giogo della colonizzazione. Infatti, ciò che tutt’ora si cerca di cambiare, nel commercio e nell’economia globale, come auspicato da Sankara, è soprattutto un sistema internazionale che ignora e sottovaluta, ora come allora, le necessità di sviluppo e crescita degli Stati del Sud globale e che si fa dominare ancora dalla centralità del dollaro per gli scambi internazionali.

Ottanta anni dopo, e soprattutto in seguito a molteplici richieste di cambiamento del funzionamento non accolte, il Sud globale ha alzato la testa e per mezzo dei BRICS ha voluto creare un sistema che meglio risponda alle necessità ed interessi internazionali della maggioranza del mondo.

Il summit di Rio è stato così l’occasione in cui i Paesi BRICS e il continente africano hanno dialogato andando ancora più a fondo. Nella sua comunicazione il presidente dell’Angola Joao Laurenco, in qualità di presidente di turno dell’Unione Africa (AU), ha sottolineato come le buone relazioni che intercorrono tra i BRICS e il continente africano siano proprio il frutto del desiderio condiviso di un rafforzamento del Sud globale con l’ottica di creare dei partenariati reciprocamente vantaggiosi.

Il Brasile, che ha ospitato il summit di quest’anno, più di ogni altro Paese al mondo porta il segno tangibile della presenza oltre oceano di coloro che un tempo abitavano il continente africano. Non stupisce pertanto che proprio quest’anno sia stato dedicato, durante il summit, un focus speciale allo sviluppo e alla sicurezza del continente africano; questo sia come segnale simbolico che per necessità strategiche dei Paesi membri dei BRICS.

In questa materia, il presidente angolano, pur riconoscendo gli sforzi fatti, ha sottolineato come ci sia ancora una lunga strada da percorre perché il Nord globale si accorga dei cambiamenti significativi avvenuti nel mondo e si convinca della necessità di riadattare il sistema internazionale secondo tale direzione. Lo stesso ritiene che il ruolo di riequilibrare la discussione sui temi della governance globale tra il Sud globale e il Nord globale spetti pertanto ai BRICS. Il presidente di turno dell’UA vede nei BRICS il luogo adatto in cui il Sud globale possa ritrovarsi e confrontarsi in merito ai meccanismi più idonei alla sua crescita.

La diversità di provenienza geografica dei membri fondatori del blocco è sicuramente un elemento di grande rilievo per meglio affrontare le sfide che accomunano tutti loro: dalle disuguaglianze sociali, alla povertà, alla miseria, ai conflitti fino all’imperativo della ricerca di comunanza di idee e visione. Il leder angolano, nonché rappresentante degli interessi dell’Unione Africana, vede nei BRICS il luogo ideale per discutere dello sviluppo del continente africano e per questo auspica un maggiore coinvolgimento del continente da parte di tali Paesi attraverso investimenti e finanziamenti mirati al fine di rafforzare il settore sanitario, l’istruzione, l’agricoltura, l’energia, il settore dei trasporti e quello della telecomunicazione.

Il cambiamento dello status quo auspicato deve avvenire anche dall’introduzione delle modifiche necessarie, nell’ottica di una maggiore rappresentazione regionale al Consiglio di sicutrezza delle Nazioni Unite; richiesta avanzata da tempo in modo unanime dal Sud globale e nuovamente sottolineata in occasione del summit di Rio dal leader sudafricano Cyril Ramaphosa. La stessa richiesta è stata ribadita dal presidente del Brasile Lula, il quale ha sottolineato come il Consiglio di sicurezza debba essere «più legittimato, rappresentativo, effettivo e democratico», valori difficilmente raggiungibili se le sorti del mondo rimangono nelle mani dei cinque membri permanenti che le detengono sin dal 1945.

Il continente africano è rappresentato all’interno del BRICS da un membro fondatore come il Sudafrica e dai tre più popolosi del continente: Nigeria, Etiopia ed Egitto, nonché altri di grande rilevanza come l’Uganda. Sapranno, questi Paesi, spingere sempre di più verso un cambiamento dello status quo del sistema internazionale? O sapranno rafforzare ancora di più questo sistema alterativo che li vede protagonisti nelle scelte più rilevanti per il loro destino economico, di sviluppo e crescita? Cambiare insieme o perire insieme come stolti! Questo è il dilemma attuale. Come avvertiva il primo presidente del Ghana indipendente, Kwame Nkrumah, se questo mondo ci nega l’attenzione e la solidarietà, abbiamo il diritto di chiedere di lasciarci almeno in pace mentre seguiamo il nostro destino in compagnia di uomini e donne sparsi per il mondo e che credono fermamente che «l’era dei destini singoli e della preservazione di sé stessi è compiuta» (C.H.Kane).

* Treccani Magazine (www.treccani.it)

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Dopo il film I tre giorni del Condor, che ha compiuto 50 anni, Pillole per l’Estate affronta oggi un tema che è sotto gli occhi di tutti gli italiani, il cibo. Da dove è nata l’indiscutibile superiorità dell’Italia che qualcuno, soprattutto dagli Stati Uniti, vuol mettere in dubbio? Le ipotesi si possono sintetizzare in tre parole: contaminazioni, fantasia e convivialità. 

SE NON C’E’ ALLEGRIA…

(PdA) Abbuffata di pareri e statistiche, tra parole che hanno stufato come “eccellenze”, “export”, “biodiversità”, e allarmi come il sempreverde concetto statistico “nel 2050 saremo tanti miliardi di abitanti in più e tanti italiani in meno, come ci sfameremo?”. L’ultimo dibattito sul cibo cui ci è toccato assistere in una noiosa serata televisiva di mezza primavera ci ha riservato un contorno repellente: grilli e una sfilza di insetti con miracolose proteine che tempo addietro mai avresti immaginato. La farina di grillo, dicono e scrivono i nutrizionisti, è un’ottima fonte proteica, con una media del 65% di proteine ad alto valore biologico. Risulta anche ricca di fibre, calcio, vitamina B12, ferro, fosforo e sodio. Altro che chiacchiere, qui atterriamo sulla terra dei miracoli.

Mangeremo questa robaccia prossimamente sui nostri schermi che sarebbero poi i supermercati dove stanno per comparire in apposite vetrinette dal design elegante e accattivante confezioni di farina di grillo con cui rendere unici i nostri cibi, le nostre pietanze. Sul palcoscenico del mangiare sano e buono sono apparsi in tv gli storici, gli studiosi dell’alimentazione e qualche reduce della ristorazione classica che si ostina ancora a preparare piatti originali e gustosi e, come si dice con un’altra stucchevole frase fatta, “legati al territorio”.

Chiedo: ma è giusto focalizzare i concetti sull’alimentazione soltanto su come vengono coltivati i prodotti della terra e gli allevamenti? A mio avviso si è giunti a una deriva così specialistica e del tutto incomprensibile che ci ha allontanato, e cercherò di spiegarvi il perché, dal significato più autentico e profondo della buona cucina legata ai prodotti della terra.

Premessa: che il pomodoro, le patate, le melanzane siano arrivate in Europa dalle Americhe grazie agli spagnoli interessa meno che zero, così come la pizza napoletana che in origine faceva schifo o come il parmigiano degli albori. Che degli spaghetti ci parli Marco Polo di ritorno dalla Cina o che qualcuno li associ agli arabi, idem con patate. Da che mondo è mondo ogni fenomeno storico, sociale, economico e, per li rami, anche alimentare, è frutto di contaminazioni, di qualcuno che aggiunge un qualcosa a un modo di pensare, di gustare, selezionare e agire, a un piatto, a un modo di coltivare e sfruttare i terreni agricoli, di seminare e far crescere verdure, granaglie, frutti e tanto altro.

Gli abitanti di questa terra non stanno fermi, vanno da una città all’altra, da un Paese all’altro e non si portano appresso solo le valigie. Volete forse che non trasmettano ciò che sanno o hanno appreso e provato nella loro terra d’origine?

La contaminazione è frutto di scambi, senza che, nell’immediato, se ne abbia contezza. Quindi la storia del pomodoro, del parmigiano, della pizza… interessa qualche studioso di quisquilie, di un’araldica dei frutti della terra che tendono, nelle intenzioni, a diventare grandi e a scatenare furiosi e accorati dibattiti, a cena, tra gli amici per approdare ora anche in televisione. Come a milioni di persone, interessa la vera qualità di ciò che arriva sulla tavola, frutto, si spera, di una contaminazione diversa da ciò che interessate multinazionali vogliono farci credere.

La grande contaminazione italiana è quella della signora Maria che dà consigli alla signora Giuseppina su come preparare il sugo per la pasta (corta o lunga? questo è il dilemma), o come e per quanto tempo tirare la pasta fatta in casa, o cucinare l’arrosto, il pesce, la verdura. A sua volta Giuseppina contaminerà la sua vicina di casa, e così, da contaminazione a contaminazione, da consiglio a consiglio, si genera una ricca e originale catena di saperi e modi di cucinare che porta alla vera eccellenza del cibo. E’ un po’ la forza del vicinato, del borgo da cui sono nate le città e che ha forgiato una parola molto importante: borghesia.

Questa è la forza italiana. E’ raccogliere la materia prima dall’orto o dalla campagna, a sua volta rinvigorita dall’erba medica, e poi nobilitarla con la preparazione di piatti unici. E di che cosa si circonda questa catena inesauribile? Qual è la carta su cui scrivere un tale menu, indescrivibile se ci riduciamo ad assistere ai vari masterchef dove i piatti “si vedono” ma non si possono “gustare”, quindi giudicare con il palato e non soltanto con gli occhi?

La carta che rende la nostra tavola quasi unica al mondo è, a mio, avviso, la convivialità. Come cucinava nostra nonna… mia madre nell’arrosto aggiungeva… com’è buono l’olio italiano… e vogliamo parlare del vino? Il tutto avviene spesso intorno a una tavola, sotto un pergolato, nelle case di campagna, dove il cibo scatena l’allegria perché è sicuramente buono e la resdora ce lo saprà spiegare nei minimi dettagli. Ovvero, come ha cucinato quel piatto, con quale metodo, con quale tempo da rispettare e con quali ingredienti. E scoprire che il segreto di tutto sta nella semplicità che ha scalzato i tanti orpelli della filosofia del “mangiare per stupire”, sta nelle sapienti mani di chi sta ai fornelli a creare tanti piccoli capolavori. In allegria e non in un triste e deprimente fast food importato dall’America.

E’ evidente che dinanzi a tanta ammirevole semplicità che scardina la filosofia specialistica contrabbandata per raffinatezza, le multinazionali del cibo scatenino una controffensiva tentando di minare i pilastri su cui si regge la forza del nostro saper mangiare. Ed ecco arrivare il cibo a basso costo, industriale, una specie di tempi moderni dell’alimentazione che non riesce a nascondere però la sua bassa qualità. Il tutto frutto di alchimie di laboratorio che sono giunte a spiegarci e a tentare di convincerci che la farina di grillo è ricca di tutto. Un cibo veloce, adatto ai tempi incalzanti delle nostre occupazioni, tra una pausa pranzo e una cena rimediata all’ultimo minuto, guardando quel che c’è in frigorifero.

Arrivano le inevitabili variazioni in tema, molte campate in aria, per adeguare il nostro palato alle nuove tradizioni che via via si impongono grazie a un raffinato e pervasivo marketing. Marketing contro tradizione e catena di trasmissione del cibo. Chi vincerà negli anni a venire? Se valgono due leggi dell’economia di cui si legge spesso, si sa già. La moneta cattiva scaccerà la moneta buona. E’ la legge di un mercante-banchiere del XVI secolo, tale Thomas Gresham. E aggiungiamoci la legge di Murphy che legge non è ma che ha il suo peso: “Se qualcosa può andar male, lo farà.” Speriamo di no. Allegria.

LA LEZIONE DEL CONDOR

Una lettura e una visione diversa di un film che compie mezzo secolo: I tre giorni del Condor con Robert Redford, Faye Dunaway, Clif Robertson e Max Von Sydow.
In breve: Joe Turner, ricercatore della CIA, si salva per puro caso dalla strage in cui cadono i suoi colleghi. Presto scopre di non potersi fidare dei superiori, e di doversi salvare da solo. Non è detto che ci riesca. Il film di Sydney Pollack rimane un classico della filmografia mondiale. Coglie perfettamente la temperie di anni che videro l’orizzonte luminoso della Nuova Frontiera intorbidirsi di trame oscure (il Watergate), intrighi internazionali (il colpo di Stato in Cile tramato dalla CIA), prospettive angosciose. La perdita dell’innocenza vissuta, anche per il sanguinoso fallimento del Vietnam, dalla coscienza collettiva degli U.S.A. diffuse ovunque i suoi riverberi (fin nella ricostruzione del passato, con la dissacrazione della mitologia western), e il Condor si colloca in tale contesto opponendosi al minestrone della salute propagandato dall’agiografia ufficiale.

UN THRILLER CHE AIUTA A CAPIRE. Il film “I tre giorni del Condor”,avvincente thriller di Sydney Pollack, ci aiuta anche a spiegare, 50 anni dopo la sua uscita nelle sale, la crisi odierna della stampa e di un certo modo di fare giornalismo, con il declino progressivo di una professione che aveva nella mediazione e nel controllo della veridicità delle notizie, in special modo le più scottanti, il fulcro del sistema dell’informazione.

In sintesi, Robert Redford-Joseph Turner-Condor, impiegato della Cia, riesce a scoprire e a sopravvivere a un complotto incentrato sui piani di una guerra da far scoppiare nel Medio Oriente per assicurarsi il controllo del petrolio. Ma un rapporto dello stesso Condor smaschera il tutto. La trama è nota, visto il successo del film e le continue repliche in tv.

Illuminante, per comprendere quanto il sistema dei media sia cambiato, è il dialogo tra Condor e il vicedirettore della Cia, Higgins (sotto, nella foto) , davanti alla sede del New York Times al quale poco prima lo stesso Condor aveva consegnato il suo rapporto sull’intera sporca vicenda. Un finale dal sapore amaro poiché insinua il dubbio che la Cia, quindi il potere, il governo, riescano a bloccare la pubblicazione, nascondendo così i fatti e i crimini.

Condor a Higgins, vicedirettore della Cia: “Va’, torna alla tua compagnia. Che aspetti? È troppo tardi”.
Higgins: “Cosa?”
Condor: “Non vedi dove siamo? Tutto scritto e consegnato. E da lì [sede del “The New York Times”] che spediscono le copie. È tutto in mano loro. Nero su bianco. Da cima a fondo”.
Higgins: “Scritto? Ma cosa hai scritto?”
Condor: “Ho raccontato i fatti: voi fate esperimenti, io racconto fatti veri”.
Higgins: “Che stronzo. Sei un povero stronzo figlio di puttana. Hai fatto più danno di quanto non ti immagini”.
Condor: “È quello che spero”.
Higgins: “Sarai solo Condor. Più solo e disperato che mai. Non avrei mai pensato… che avresti fatto questa fine”.
Condor: “Per questo l’ho scelta”.
Higgins: “Ehi Condor! Sei sicuro che lo stampano? Vai, vai, continua pure per la tua strada. Ma dove arrivi se poi non lo stampano?”
Condor (colto di sorpresa, sperduto): “LO STAMPANO”.
Higgins (sicuro di ciò che insinua): “CHE COSA NE SAI?”.

Condor, 50 anni fa, aveva davanti a sè soltanto una via per vedersi pubblicare il suo rapporto: entrare in un giornale, consegnare al cronista tutto il materiale e raccontare, raccontare… Il giornalista, una volta avuto tra le mani ciò che prometteva di essere un colpo giornalistico ci “lavorava sopra”. Cercava conferme, confrontava dati e circostanze, e alla fine scriveva il suo pezzo che, però, doveva passare sotto le forche caudine della direzione: “E’ una notizia sicura?” “Ci possiamo fidare?” “Chi è questo Condor?” “Perché è venuto da noi a raccontare questa storia?” e tanti altri pressanti e sospettosi interrogativi.

Se l’articolo dello scandalo riusciva a passare indenne questo esame perché ritenuto credibile, il giorno dopo tutti lo avrebbero letto in prima pagina, con tutte le conseguenze del caso. Ma se fosse prevalsa la cautela? Se il rapporto non avesse convinto i piani alti del giornale? Condor, come dice il vicedirettore della Cia, sarebbe rimasto solo e con un sicario sempre alla sue spalle pronto a ridurlo al silenzio.

Immaginiamo Condor oggi. Che cosa avrebbe potuto fare per evitare il dubbio sulla pubblicazione o il cestino? Semplice, entrare in un qualsiasi internet caffè, accendere il computer e spedirlo, anche con lo smartphone, con un clic, a una miriade di siti d’informazione, a tante edizioni online di giornali in qualsiasi angolo della terra. La condivisione di una notizia sarebbe stata la garanzia che qualcuno, in virtù della sacra legge della concorrenza tra giornali e tv, lo avrebbe pubblicato.

Il giornalista avrebbe avuto soltanto il compito di controllare la veridicità del tutto e una volta certo dei fatti descritti ecco il “si pubblichi”. Una notizia in pasto a tante fonti avrebbe avuto di sicuro “l’Ok, visto, si stampi” da parte di qualche giornale. “Se non pubblico io lo farà il mio concorrente. Il danno sarebbe notevole e ne andrebbe della mia reputazione”.

Ecco perché Condor e i tanti condor in giro per il mondo avrebbero a disposizione una procedura sicura per dare in pasto un qualsiasi scandalo (si pensi ai vari leaks che sono riusciti a perforare il muro della segretezza eretto dal potere, in primis Assange), ai veri padroni dell’informazione: non più soltanto ai giornalisti, ma ai lettori. Governo o non governo, Cia o non Cia.

E’ il potere dei nuovi e pervasivi media, dei social, di internet. Questa la vera causa del perché i giornali sono diventati meno credibili d’un tempo. Subiscono il controllo di migliaia di nuovi (spesso però anche drammaticamente dilettanteschi e ignoranti) operatori dell’informazione. Se non scrivo io, scriverà di certo l’altro. Non sarò più io a informare, ma il mio concorrente. E vallo poi a spiegare ai miei lettori. La nuova informazione non concepisce che si arrivi secondi su un fatto, su un avvenimento o su una notizia. A meno che arrivare secondi non dispiaccia all’editore e influisca in maniera negativa sui suoi interessi. (Pda)

Qualche minuto in compagnia di…

… Charles Bukowski: “Vi prego salvatemi dagli scrittori: le conversazioni con le puttane di Alvarado Street erano molto più interessanti. Oggi ci sono centinaia di milioni di scrittori. Se di questi tempi chiami un idraulico, ti si presenta con la chiave giratubi in una mano, la ventosa nell’altra e un libriccino con i suoi madrigali nella tasca posteriore”.

Ancora Bukowski: “C’è gente benpensante che mi diceva: tutti soffrono; e la mia consueta risposta era: nessuno soffre come i poveri”.

L’ultima di Charles: “La mia idea di scrittore è di uno che scrive. Che siede alla macchina da scrivere tempestando il foglio di parole. Questo dovrebbe essere il punto. Non insegnare agli altri come si fa, frequentare seminari, leggere a folle impazzite. Se volevo essere su un palcoscenico, facevo l’attore. Se lo fai per pagare l’affitto va bene, ma troppi lo fanno per vanità”. (da Charles Bukowski – Sulla scrittura – Guanda editore).

Marc’Aurelio. Qual è la strategia dei ciarlatani, degli affabulatori, dei politici di mezza tacca, degli arruffapopoli, dei demagoghi e dei giornalisti un po’ servili? “Usare le parole per rendere i fatti vaghi e confusi” Così avrebbe risposto Marc’Aurelio secoli fa. Scrisse, in greco, nelle sue Meditazioni: “Le opinioni sono parole, non fatti”.

Mariana Mazzucato. Un tuffo nella finanza con il suo libro “Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale”. “La finanza – ammonisce – ha abbandonato il suo ruolo di intermediazione tra risparmio e investimento ed è diventata dagli Anni Ottanta in poi, con la fine delle regole stabilite a Bretton Woods, un casinò. La finanza è diventata sostanzialmente una bisca in cui si scambiano scommesse”.

Virginia Woolf. Nella giornata internazionale dei diritti della donna viene in soccorso Virginia Woolf con il suo libro “Una stanza tutta per sè” (Feltrinelli). “Per secoli le donne sono state gli specchi magici e deliziosi in cui si rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata. Senza questa facoltà, probabilmente la terra sarebbe ancora palude e giungla. Tutte le glorie delle nostre guerre non sarebbero esistite (…) I superuomini e i figli del destino non sarebbero mai esistiti. Lo Zar e il Kaiser non avrebbero mai portato le loro corone, e neppure le avrebbero perdute (…) questi specchi sono indispensabili a ogni azione violenta ed eroica. Perciò Napoleone e Mussolini insistono così enfaticamente sull’inferiorità delle donne, perché se queste non fossero inferiori, non servirebbero più a raddoppiare gli uomini. (…) E spiega anche perché essi non tollerano la critica della donna (…) Giacché se la donna comincia a dire la verità, la figura nello specchio si rimpicciolisce: l’uomo diventa meno adatto alla vita”.

Digitale contro carta. Bookcity Milano e il manifesto #ilibricisalveranno. Digitale contro carta. Tre risvolti pericolosi:

1) digitale e social network stanno catturando il nostro tempo e la nostra attenzione in una modalità sempre più pervasiva, spesso patologica;

2) l’illusione del sapere, dovuta al continuo numero di informazioni a portata di smartphone, che indebolendo la nostra capacità di pensare, approfondire, riflettere, distinguere le notizie da quelle che non lo sono. Con tutti i rischi connessi ai processi di formazione del consenso che sono alla base della nostra democrazia;

3) la digitalizzazione è un processo che silenziosamente, contribuisce a indebolire le nostre capacità di concentrazione, memorizzazione e comprensione di un testo scritto: è in discussione la salute dei nostri cervelli, e in particolare di quelli delle nuove generazioni. Quindi: tornare a riempire il nostro tempo di letteratura, poesia, giornalismo di qualità.
E’ un manifesto indirizzato alla politica affinché rifletta e agisca su questi quattro punti. Una sintesi:
Impariamo a chiederci cosa sappiamo di ciò che sappiamo. Il digitale opera inondando le persone di post irrilevanti e news spesso infondate. – La competenza e l’affidabilità di un giornalista hanno un prezzo che non va vissuto come un costo bensì come un investimento per la nostra società e i nostri giovani. – Impegniamoci a ridare la giusta attenzione alla nostra attenzione, l’iperconnessione sta riducendo la nostra capacità di concentrazione.  Incoraggiamo le persone ad aprire più libri – Difendiamo il valore della lettura e dei libri stampati Le storie sui social scadono dopo un giorno. Quelle stampate nei libri durano una vita. – Grazie ai libri teniamo in vita saperi e pensieri che si tramandano di generazione in generazione – Distinguiamo il valore di ciò che leggiamo. Le parole sullo schermo scivolano via veloci. Stampate sulla carta acquisiscono una forza e una “durevolezza” che costringe chi le scrive a valutarle, rivederle, limarle una a una. E più parole impareremo, più potremo dire di sentirci liberi.

Alexis de Tocqueville (XIX secolo) sull’effetto alienante del consumismo: “Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di uomini eguali, che volteggiano su sé stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui pasce la loro anima. Ognuno di essi, tenendosi in disparte, è come estraneo a tutti gli altri”.

Sigmund Freud. Potevo risparmiarvi un suo aforisma? “Con una vita sessuale normale, la nevrosi è impossibile. I medici dovrebbero abituarsi a spiegare all’impiegato che si è ammazzato di lavoro in ufficio, o alla massaia per la quale la casa è divenuta troppo pesante, che essi non si sono ammalati perché hanno cercato di svolgere mansioni che di fatto, per un cervello civile, sono propriamente leggere, ma perché, mentre svolgevano tali mansioni, hanno trascurato e deteriorato in modo grossolano la propria vita sessuale. (Sigmund Freud – Aforismi. Ed. Bollati Boringhieri).

Shakespeare. “Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è cinta di sogni” (La tempesta).

Colum McCann: “Una delle caratteristiche principali del dolore è che prima di tutto esige di essere sconfitto, poi compreso”. “Ben oltre il giusto o lo sbagliato c’è un campo, ti aspetterò là” Rumi, poeta sufi. “Il mio dolore e il suo dolore: lo stesso dolore”. (McCann – Apeirogon. Ed. Feltrinelli).

Leonard Cohen: “C’è una crepa in ogni cosa. E’ da lì che entra la luce” . (Anthem)

 

Amos Oz: “Il fanatico è un altruista, ma se non riesce a cambiarti, ti ucciderà”. (Contro il fanatismo).

Donne armate di coraggio. Da far leggere ai prepotenti e ai criminali dei giorni nostri. E’ Natale. Grazia S. invia in Rete una poesia dedicata alle coraggiose donne curde, che l’Occidente ha usato contro l’Isis e poi abbandonate al loro destino da perseguitate. Sono donne, sono curde, combattono i tagliagole del fanatismo islamico. A me ricordano le miliziane repubblicane di Spagna – alquanto sgangherate secondo l’Omaggio alla Catalogna scritto da George Orwell, ma coraggiose e armate di generosa fierezza – e anche le partigiane italiane.
“Io vado, madre / Se non torno / sarò fiore di questa montagna / frammento di terra per un mondo / più grande di questo /
Io vado, madre / Se non torno/ il corpo esploderà là dove si tortura / e lo spirito flagellerà / come l’uragano, tutte le porte /
Io vado madre / Se non torno / la mia anima sarà parola / per tutti i poeti.”

Philip Marlowe (personaggio creato da Raymond Chandler). “Nulla dice addio come una pallottola”. (Nella foto, Robert Mitchum nel film Il poliziotto privato)

Groucho Marx. “Questi sono i miei princìpi, e se non vi piacciono, beh ne ho altri”. E poi un’eterna e inconfutabile verità detta con l’eterno sigaro in bocca e con l’espressione furba alla groucho: ”Il matrimonio è la causa prima del divorzio”.

Il caffè anarchico. Un tale ebbe a dire: “Come si fa a governare un Paese, la Francia, che ha ben 272 tipi di formaggio?” Stamani ho riflettuto, invece, sull’anarchia tutta italiana al bar, dove un semplice caffè diventa, per la malcapitata cameriera, peggio di un indovinello della Sfinge. Elenco le possibili ordinazioni di un caffè che sono riuscito a memorizzare:

1. Caffè normale
2. Caffè in tazza grande
3. Caffè in tazzina fredda
4. Caffè lungo in tazza grande
5. Caffè lungo in tazza calda
6. Caffè corto in tazzina fredda
7 Caffè corto in tazzina calda
8. Caffè macchiato caldo
9. Caffè macchiato freddo
10. Caffè decaffeinato
11. Caffè decaffeinato macchiato caldo
12. Caffè decaffeinato macchiato freddo
13.Caffè macchiato con latte di soia
14. Caffè al ginseng con le varie declinazioni
15. Caffè corretto alla sambuca
16. Caffè corretto al cognac
17. Caffè macchiato con latte senza lattosio… 18. Caffè con sambuca 19 Caffè marocchino 20. Caffè marocchino senza schiuma 20 Caffè macchiatone…

… continuate voi. L’elenco si allungherà a dismisura. Ma la vetta più alta di questa fantasia al bancone del bar è stata raggiunta dalla signora elegante e affettata che ha osato ordinare un caffè normale, liscio (“finalmente una persona semplice“) ma con un’aggiunta stupefacente: “Mi raccomando signorina… con il cucchiaino freddo”.

Ps. Continuate voi.

Estate, scene di vita italiana

Atto primo. Quattro amici si incontrano. Non si vedevano da tempo. “Ciaooooo, come stai? Che gioooiaaaa” e via strette di mano e abbracci. Il fortunato sta per dire qualcosa, vuole manifestare e condividere la sua, di gioia. Ma squilla un primo telefonino. Una delle tre signore si allontana e risponde, imbastendo una fitta conversazione con colei (o colui) che avrebbe potuto benissimo richiamare di lì a poco. Dieci secondi ed ecco altri due squilli e altrettante conversazioni. Sembra che tutti si siano dati un appuntamento telefonico a quell’ora. All’ora della gioia di quattro persone amiche che si ritrovano in piazza. L’uomo per una manciata di secondi finge di aspettare ma poi, approfittando della distrazione generale, si allontana. Se la dà a gambe e scompare. Tutto ha un limite, anche la pazienza. Tre minuti dopo sente squillare il suo di telefonino. E’ una delle tre di prima. Lui non risponde ma fa partire un messaggio: “Sono con altre persone. A dopo”. Mai più risentite.

Atto secondo. Ho assistito, mio malgrado,  e senza volerlo a questa scena. “Ciaooooooo…. Dove sei stato tutto questo tempo”. “In giro” è la risposta. “In giro dove?” incalza la signora con appresso il marito. “Un po’ al mare, poi un viaggetto… ” Dai, raccontaci tutto…”. “Sono tornato a New York…” si lascia sfuggire il malcapitato. “Davveeeerooooo? Oh, New York, altro mondo…. Ti ricordi caro – dice rivolgendosi al compagno – quando siamo andati noi, cinque anni fa?”. Il marito annuisce, faccia da ebete, mentre lei comincia a tirare un pistolotto sulla sua vacanza a Nyc di cinque anni prima. Racconta… sorride, racconta… racconta… un fiume di ricordi, e si addentra in particolari insignificanti che a lei apparivano avventure uniche, epiche. Cita perfino i pop corn che la coppia, cedendo a una botta di vita, aveva comprato a Broccolino. “Buonissimi”. Al malcapitato il latte è già arrivato alle caviglie. “Scusate, devo scappare, mi aspettano” e taglia la corda.
Consiglio personale. Alla domanda “Dove sei stato in tutto questo tempo?” Non bisogna cadere nel tranello. Bisogna rispondere sempre: “Ho fatto un po’ di volontariato tra malati e senzatetto”.

Atto terzo. Quattro ragazzini di Malo, in provincia di Vicenza, sono stati multati per 600 euro (150 euro a testa) da vigili inflessibili del tipo qui non si guarda in faccia a nessuno, tantomeno ai bambini. I quattro sanzionati (pagheranno le famiglie) hanno violato il divieto di giocare a pallone nel parco cittadino. C’era anche un cartello con l’immagine del pallone sbarrato a ricordare che “è vietato praticare giochi molesti”. Tutto secondo la legge, per carità. Ma come si fa a vietare a un gruppetto di bambini (età da 5 a 8 anni) di dare quattro calci a una palla? La motivazione: il pallone alza la polvere e infastidisce il signore e la signora seduti sulla panchina, che hanno scordato di trovarsi in un parco giochi e non in chiesa o in un collegio svizzero. Se vado al parco è per giocare, mica a un funerale o in chiesa o in biblioteca. E’ il gioco che manca ai bambini. Sono ipnotizzati da telefonini, tablet e iPhone. Se ne stanno delle ore a cliccare attratti da trucchi per farli stare fermi, anche a costo di rincretinirli. Vietato giocare a pallone. I ragazzini vanno legati. L’unica cosa da fare è togliere quei divieti.  E se la cosa disturba c’è una sola via d’uscita: vietare i parchi a coloro che detestano il divertimento, il gioco, anche se alza la polvere.

Atto quarto. Sulla spiaggia di una conosciuta località balneare dell’Alto Adriatico ho visto un assembramento di vigili urbani dotati di moto da spiaggia. Controllavano, con malcelata soddisfazione professionale e di divisa, i venditori abusivi, immigrati che propongono vestiti, foulard, chincaglieria tutto a 5 euro. I quali, da un giorno all’altro, sono scomparsi. Soddisfatti i commercianti del luogo, sebbene i negozi continuassero a essere tristi e semivuoti. Illusi. Fingono di non sapere che il primo vero, grande e per ora invincibile concorrente è Amazon.Se la prendono con gli ultimi. Quasi ogni negozio con le serrande abbassate è una vittima del colosso delle vendite online. La verità è che contro internet non puoi mandare i vigili urbani con la moto da spiaggia.

Atto quinto. Esistono alcuni tipi di italiani e italiane che tentano di apparire per quello che non sono. Amano ripetere in ogni discussione: 1) non ho nulla contro le persone di colore, ho un amico nero; 2) non ho nulla contro i gay, ho un amico e un’amica gay; 3) voto a destra, ma in passato votavo a sinistra… L’ultima frase autoassolutoria di chi nell’intimo detesta la sinistra, oggi, è la seguente: peccato che in Italia la sinistra non faccia la sinistra… con l’espressione finto-dispiaciuta. A me sembra, il tutto, ipocrita e opportunista. Perché se la sinistra avesse fatto la sinistra per certi discutibili personaggi la pacchia sarebbe finita da tempo.

Atto sesto. Quelli che… liberali, moderati, sovranisti, socialdemocratici, centristi, centro di qua, centro di là, guardo a destra, guardo a sinistra, né di destra, né di sinistra, devo riflettere, non voglio impegnarmi, le ideologie sono scomparse (sic), lascio il partito e vado al centro; no, io resto qui… Siamo talmente abituati a spaccare l’atomo per distinguerci che nessuno più ha il coraggio di dichiarare con semplicità di essere politicamente quel che è.

Atto settimo. Parola di re. La storiella dell’ex re dell’Egitto, Faruq I. Amava giocare a poker, ma, cosa impossibile per noi comuni mortali, con i soldi del Tesoro nazionale. Al momento decisivo della scoperta del punto, dinanzi, chessò?, a un full dell’avversario, annunciava: “Io ho un poker”. “Maestà, potrei vedere il punto?” azzardava un timido suo avversario di gioco. Faruq, sdegnato, lanciava le carte in aria e urlava: “Ho un poker, parola di re”.

Grazie per l’attenzione e buone vacanze (PdA)

 

 

 

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