sabato 5 Luglio 2025

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

ANCHE AZIENDE E UNIVERSITA’ complici della distruzione di Gaza: la svolta “epocale” del Rapporto Onu

Il 30 giugno 2025 la Relatrice Speciale dell’ONU, la giurista italiana Francesca Albanese, ha presentato al Consiglio per i Diritti Umani un rapporto che potrebbe segnare una svolta nelle responsabilità economiche nei conflitti armati. Intitolato “From Economy of Occupation to Economy of Genocide” (il testo integrale in italiano), il documento accusa oltre 60 aziende internazionali di trarre profitto dalla distruzione sistematica della Striscia di Gaza da parte di Israele e di contribuire direttamente o indirettamente a crimini che configurano il genocidio.

Secondo Albanese, l’attuale campagna militare israeliana non si reggerebbe solo su decisioni strategiche, ma su una rete industriale e finanziaria che renderebbe l’aggressione “economicamente sostenibile”. Le aziende coinvolte opererebbero nei settori della difesa, della tecnologia, della sorveglianza, delle infrastrutture e anche dell’industria automobilistica.

Tra le imprese citate spiccano giganti della difesa come Elbit Systems, Israel Aerospace Industries, Rafael Advanced Defense Systems, Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, l’italiana Leonardo, Airbus, tutte fornitrici di armamenti utilizzati nei bombardamenti o nelle incursioni di terra contro Gaza.

Nel campo della tecnologia, il report menziona Palantir Technologies, che fornisce software di sorveglianza alle autorità israeliane; Google e Amazon, coinvolte nel controverso progetto Nimbus di cloud computing (“nuvola informatica”, tecnologia che permette di elaborare e archiviare dati in Rete. Attraverso internet  consente l’accesso ad applicazioni e dati memorizzati su un hardware remoto invece che sulla workstation locale. Per le aziende di grosse dimensioni implica un ingente abbattimento dei costi; non sono più necessari hardware potenti e costosi, ma basta una macchina in grado di far funzionare l’applicativo d’accesso alla “nuvola”) per il governo israeliano e altri colossi come IBM, HP e Microsoft, accusati di contribuire alle infrastrutture digitali dello Stato israeliano, comprese le piattaforme di riconoscimento facciale e i sistemi di controllo nei checkpoint e nei Territori occupati.

Come racconta il report: “Microsoft è attiva in Israele dal 1991, sviluppando il suo più grande centro al di fuori degli Stati Uniti. Le sue tecnologie sono integrate nel sistema penitenziario, nella polizia, nelle università e nelle scuole, comprese le colonie. Microsoft ha integrato i suoi sistemi e la tecnologia civile nell’esercito israeliano dal 2003, acquisendo al contempo start-up israeliane di sicurezza informatica e sorveglianza”.

Il rapporto “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”

Questo rapporto (a lato, la copertina che introduce il report dell’Onu) indaga i meccanismi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano di sfollamento e sostituzione dei palestinesi nei territori occupati. Mentre i leader politici e governi si sottraggono ai propri obblighi, troppe entità aziendali hanno tratto profitto dall’economia israeliana di occupazione illegale, apartheid e ora genocidio. La complicità denunciata da questo rapporto è solo la punta dell’iceberg; porvi fine non sarà possibile senza chiamare a rispondere il settore privato, compresi i suoi dirigenti. Il diritto internazionale riconosce diversi gradi di responsabilità, ognuno dei quali richiede esame e accertamento delle responsabilità, in particolare in questo caso, in cui sono in gioco l’autodeterminazione e l’esistenza stessa di un popolo. Questo è un passo necessario per porre fine al genocidio e smantellare il sistema globale che lo ha permesso.

Il 16 giugno, nel discorso di apertura a Ginevra della 59ª Sessione del Consiglio per i Diritti Umani, l’Alto Commissario Volker Türk aveva esplicitamente denunciato che il governo e l’esercito di Israele infieriscono da molti anni contro i civili palestinesi che abitano nei territori in Cisgiordania, in Libano e a Gaza, dove inoltre la popolazione assediata dal 2023 da mesi viene anche aggredita usando il cibo come un’arma letale.

Basate sui dati raccolti attingendo da un’ampia letteratura e dagli archivi dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), le analisi del report elaborato a cura di Francesca Albanese evidenziano molteplici correlazioni tra i crimini contro l’umanità compiuti nei territori palestinesi con le attività produttive e commerciali realizzate da imprese israeliane, società multinazionali e aziende di varie nazionalità operanti nell’industria bellica, nell’agricoltura, nel turismo e nella finanza e con le attività di ricerca scientifica e con i programmi accademici.

Il rapporto fa riferimento anche ad alcuni precedenti storici, in particolare:  1) ai processi sull’Olocausto, che “hanno gettato le basi per il riconoscimento della responsabilità penale internazionale dei dirigenti aziendali per la partecipazione a crimini internazionali”;   2) le inchieste sulla complicità delle aziende nell’apartheidin Sud Africa, in cui “la Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana ha contribuito a definire la responsabilità delle aziende per le violazioni dei diritti umani”.

Il rapporto rileva che “il caso della Palestina mette ulteriormente alla prova gli standard internazionali”. Se fosse stata eseguita un’adeguata due diligence (la verifica dei dati di bilancio)  in materia di diritti umani, le aziende si sarebbero da tempo disimpegnate dall’occupazione israeliana. Invece, dopo il 7 ottobre 2023, gli attori aziendali hanno contribuito all’accelerazione del processo di sfollamento-sostituzione durante la campagna militare che ha polverizzato Gaza e sfollato il maggior numero di palestinesi in Cisgiordania dal 1967.

Tra le più importanti aziende citate spiccano Alphabet (a cui fa capo Google), Amazon, HP (Hewlett Packard), IBM, Microsoft e Palantir Technology. Tra le imprese che fabbricano armi e attrezzature belliche il rapporto menziona due società israeliane,”la Elbit Systems, fondata come partnership pubblico-privata e successivamente privatizzata, e la statale Israel Aerospace Industries (IAI)”, di cui evidenzia che sono “tra i primi 50 produttori di armi a livello globale”. Inoltre, il report annota il ruolo della “statunitense Lockheed Martin, insieme ad altre 1.600 aziende, tra cui il produttore italiano di armamenti  Leonardo, e otto Stati,  ricordando che i suoi velivoli F-35 e F-16 sono stati “fondamentali per dotare Israele di una potenza aerea senza precedenti, in grado di sganciare circa 85.000 tonnellate di bombe, uccidere e ferire più di 179.411 palestinesi e distruggere Gaza”.

In merito alla fornitura all’esercito israeliano di armi e delle loro componenti e munizioni e di attrezzature e accessori con cui viene perpretata la strage di civili palestinesi, il rapporto pone in risalto il ruolo, non secondario, di “una rete di intermediari, tra cui studi legali, società di revisione e consulenza, nonché trafficanti, agenti e broker” e delle compagnie di trasporto. Focalizzando l’attenzione al fatto che “le attività aziendali in un’area interessata da un conflitto non possono mai essere neutrali” e alla questione che “anche se un’entità aziendale non prende posizione in un conflitto, inevitabilmente le sue attività influenzeranno le dinamiche del conflitto”, il rapporto sottolinea che la condotta delle società e dei loro dirigenti può comportare una responsabilità penale diretta, comunque costituisce una responsabilità di complicità o di favoreggiamento.

Il report menziona l’italiana Leonardo SpA anche in merito all’impiego delle tecnologie civili come armi, ovvero “come strumenti a duplice uso nell’occupazione coloniale”: in collaborazione con aziende come IAI, Elbit Systems e RADA Electronic Industries, di proprietà di Leonardo, Israele ha trasformato il bulldozer D9 di Caterpillar in un’arma automatizzata e comandata a distanza, fondamentale per l’esercito israeliano dal 2000, impiegata in quasi tutte le attività militari condotte per sgomberare le linee di incursione, ‘neutralizzare’ il territorio e uccidere i palestinesi. Il rapporto evidenzia anche che la costruzione di strade e infrastrutture è stata determinante per “l’espansione delle colonie e per collegarle a Israele, escludendo e segregando i palestinesi” e funzionale a imporre il “controllo sistematico sulle risorse naturali“, in particolare l’acqua.

Rilevando che da molti anni in Israele prosperano l’agricoltura, le cui produzioni – molte commercializzate all’estero e nelle catene della GDO (Grande Distribuzione Organizzata) – incrementano parallelamente “all’accaparramento delle terre” dei palestinesi, e il turismo, un ambito in cui gli attori locali e le agenzie di intermediazione “traggono profitto dall’occupazione”, che a loro volta incentivano sia direttamente che indirettamente, il rapporto evidenzia “i quadri di riferimento ambientali, sociali e di governance (ESG) non possono continuare a trascurare il diritto all’autodeterminazione, che è saldamente radicato nella legislazione sui diritti umani, riconosciuto come diritto fondamentale di tutti i popoli e prerequisito di tutti gli altri diritti.

In questa prospettiva, il rapporto focalizza l’attenzione sulle collaborazioni tra centri di ricerca e accademici israeliani con le università di altre nazioni, in particolare le cooperazioni con il prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston e gli scambi svolti nell’ambito del programma Horizon Europe della Commissione europea, di cui rileva che “dal 2014, la Commissione europea ha concesso oltre 2,12 miliardi di euro (2,4 miliardi di dollari) a entità israeliane, tra cui il Ministero della Difesa, mentre le istituzioni accademiche europee beneficiano e rafforzano questo intreccio”.

L’indagine si conclude chiedendo che “le atrocità di cui siamo testimoni a livello globale richiedono un’urgente assunzione di responsabilità e giustizia, che richiede azioni diplomatiche, economiche e legali contro coloro che hanno mantenuto e tratto profitto da un’economia di occupazione divenuta genocida. In particolare, fa osservare in Italia il Centro di Ateneo per i diritti Umani, “le università, sono parte integrante dell’apparato di oppressione per il loro coinvolgimento, diretto e indiretto, nella perpetuazione di conoscenza, tecnologie e narrazioni funzionali all’occupazione

Osservando che il report “richiama esplicitamente la responsabilità penale internazionale non solo degli Stati, anche delle imprese e dei loro dirigenti”, il Centro di Ateneo per i diritti umani rileva che il report rivolge un’attenzione particolare alle università, “considerate parte integrante dell’apparato di oppressione” per il loro coinvolgimento, diretto o indiretto, “nella perpetuazione del regime di apartheid e nella produzione di conoscenze, tecnologie e narrazioni funzionali all’occupazione”. In altre parole, il rapporto di Francesca Albanese denuncia le complicità delle aziende e dell’accademia nel sistema di Israele nei territori palestinesi occupati. Un rapporto coraggioso, ponderato e basato sui documenti, giustamente definito per il suo impatto sull’opinione pubblica “epocale”. Un rapporto che mette i brividi.

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