La rivista Rolling Stone incorona come capolavori due film francesi, presentati l’anno scorso a Venezia. Ecco la recensione.
di Benedetta Bragadini *
— Sarà una congiunzione astrale, o forse uno studiatissimo piano di uscita delle distribuzioni, chissà. Il fatto è che in questi giorni al cinema ci sono due film francesi bellissimi, autenticissimi, intrinsecamente (e non forzatamente) femminilissimi.
C’è qualcosa di deliziosamente inattuale in Trois amies. E come spesso accade con ciò che è inattuale, è anche ciò che ci parla di più. D’amore, innanzitutto, ma anche di legami, complicità, paure, e di quella cosa impalpabile che – ancora una volta – i francesi sanno raccontare come nessun altro: l’oscillazione permanente tra desiderio e responsabilità, l’indecisione come sintomo vitale
Ambientato in una Lione languida e collinare, la commedia racconta un momento della vita di tre amiche: la pragmatica Alice (Camille Cottin), la romantica Joan (India Hair) e l’imprevedibile Rebecca (Sara Forestier). Joan ha smesso di amare il suo compagno Victor (un Vincent Macaigne più disarmato del solito) ma si sente in colpa all’idea di lasciarlo. Alice, invece, non ha mai amato suo marito Éric (Grégoire Ludig), ma finge di sì con un’ostinazione quasi ammirevole. Rebecca, l’anello mancante, ha una relazione con Éric. Cottin è la perfetta voce di una sentitissima confessione generazionale. Accanto a lei Forestier pare una scheggia libera, trasformista, comica, tragica, folgorante, mentre Hair, più in ombra, completa il ritratto con una forza discreta, struggente.
Non anticipiamo troppo, ma c’è un colpo di scena che colpisce una delle coppie apparentemente stabili, e le sue ramificazioni – senso di colpa, dolore, ombra di tristezza – lambiscono anche chi non era direttamente coinvolto. Lo stile però resta lieve. L’intreccio scivola via, ma il cuore resta appeso – e le conseguenze affettive persistono. Il pianoforte jazz a contrappuntare le storie, lo schermo nero e il font serif aprono una dichiarazione d’intenti alleniana (pure il narratore maschile come in Hannah e le sue sorelle!). Il metacinema (Buster Keaton) diventa metafora di cadute e rinascite affettive. Il dialogo sospeso ha riflessi rohmeriani e lubitschiani, più che neoromantici, ma sempre col tocco un po’ vintage, l’energia vivace e l’umorismo agrodolce di Mouret.
Forse è questo il rovesciamento più silenzioso e potente di Trois amies: non un racconto centrato sul classico triangolo amoroso (che ovviamente non manca), ma un trapezio emotivo danzante, che Mouret disegna con la precisione di un geometra dei sentimenti, una rete affettiva femminile fatta di (in)comprensioni, ironia, parole non dette e altre dette troppo, un microcosmo “politico” dell’amore. In un genere spesso dominato da scelte – tradire o non tradire, amare o disamorarsi – Mouret lavora sulla sfumatura, la zona grigia, la tenerezza dell’irrisolto.
E allora Anne-Sophie Bailly non racconta una madre esemplare, ma una madre reale. Che sbaglia, che invade, che protegge troppo. Che ha fatto della propria capacità di contenere e organizzare gli altri una forma di sopravvivenza. Che ama tanto da dover imparare a smettere. È un film sulla disabilità, sui diritti (quello di Joël a scegliere, di Océane a rimanere incinta, di Mona a essere libera), sulla dipendenza emotiva, sul caregiver che rischia di perdersi nell’altro, sull’autoprivazione che finisce di essere amore per diventare quasi ossessione.
E la regista delinea la dipendenza reciproca con delicatezza chirurgica: non c’è giudizio, pietismo né eroismo, e non c’è nemmeno redenzione. Close-up empatici, esterni che isolano – il mondo non entra, o entra solo quello che serve. C’è solo una donna che ha costruito tutta la sua identità intorno al bisogno dell’altro e che, quando quel bisogno viene meno, vacilla. Perché amare vuol dire anche accettare di essere superflui, e lasciare andare.
Come Trois amies e Mon inséparable sono due piccoli miracoli della stesso cinema, Cottin e Calamy sono diverse, opposte e complementari: Camille è Lione, eleganza spigolosa, intelligenza affilata; Laure è la periferia parigina, energia sbilenca, empatia travolgente. Una rarefatta, l’altra immediata. Ma entrambe espressione della vulnerabilità come forza, dell’imperfezione come forma di bellezza, del sentire come materia da cui nasce il cinema. Un cinema profondamente e intrinsecamente di donne, ma non solo perché si occupa “di donne”, quanto perché ne adotta lo sguardo, la complessità, persino una certa grammatica emotiva. Un cinema che rifugge il cinismo, che sa che amare può voler dire anche restare, lasciar andare, fare un passo indietro o avanti, inciampare, riderci su, prendersi cura. Un cinema che non ha bisogno di rivendicare nulla e che, senza fare rumore, ti resta addosso come una carezza.
* www.rollingstone.it