Il giorno prima ha messo la firma sulla tregua tra Israele e Iran, il giorno dopo sull’aumento delle spese militari per i 32 Paesi Nato. Di certo Donald Trump si è spacciato come un portatore di pace fin dal suo insediamento, quando annunciava di riuscire a mettere la parola fine alla guerra in Ucraina in pochi giorni. E il termine pace è sicuramente tra i suoi preferiti, anche se non ha esitato poi tanto a far partecipare l’esercito americano all’offensiva israeliana contro l’Iran e i suoi impianti nucleari, senza contare le brusche e a tratti violente deportazioni di immigrati e l’attacco alle università impedendo, sempre in nome della pace, le iscrizioni agli studenti stranieri.
La lista degli ammiratori di Donald Trump, servi comunque in numero maggiore dei sinceri ammiratori, si allunga ogni giorno che passa. Stare appresso alle gesta e alle fanfaronate di un personaggio così sconclusionato è parecchio faticoso. Tutto è cominciato con i fanatici evangelici che affollano la Casa Bianca, preceduti dal perdono e dalla scarcerazione di quei fiori di campo che assaltarono il Congresso, continuando con le invasate tele-predicatrici che gli impongono le mani, con il segretario della Nato, tale Rutte, che lo coccola chiamandolo “paparino” e che ha spinto la stampa mondiale a parlare senza reticenze di “leccaculismo” (nella foto, la caricatura dello sguardo amorevole di Rutte a Trump), per finire con un deputato del suo partito che lo candida addirittura al Premio Nobel per la Pace. Qui vale la massima secondo la quale “se devi dire una sciocchezza dilla grande, ci crederanno in molti”.
L’era Trump, l’era della profonda caduta di prestigio degli Stati Uniti agli occhi del mondo, ci sta riservando uno spettacolo indecoroso, con un presidente che dice tutto e il contrario di tutto, e che ama circondarsi di yesmen e adulatori, in verità personaggi solo intimoriti dalle sue sfuriate.
Insomma, più volte Trump ha detto che non gli dispiacerebbe ricevere il premio Nobel per la pace, visto tutto l’impegno che ci mette a negoziare, telefonare, parlare con i leader del mondo in guerra o in procinto di entrarci (e che altro dovrebbe fare?) E nel giorno del cessate il fuoco tra Israele e Iran, dopo la guerra dei 12 giorni, c’è chi ha voluto portare al Comitato Norvegese la sua candidatura ufficiale.
A farlo è stato il deputato repubblicano Earl L. “Buddy” Carter, rappresentante della Georgia, che ha inviato martedì scorso una lettera al comitato per il Nobel in Norveglia, per avanzare il nome di Trump al Premio Nobel. A motivare la richiesta del riconoscimento al tycoon (lo chiamano così perché è più chic, ma sarebbe meglio palazzinaro) è “il suo ruolo storico nel mediare un cessate il fuoco tra Israele e Iran e nell’impedire al più grande sponsor mondiale del terrorismo, l’Iran, di ottenere una testata nucleare”.
Carter scrive: “Il Presidente Trump ha intrapreso un’azione coraggiosa per promuovere la pace attraverso la forza e facilitare un cessate il fuoco che abbia posto fine alle ostilità”. E ancora: “In una dichiarazione che da allora ha avuto risonanza in tutto il mondo- prosegue Carter- il Presidente Trump ha annunciato i termini di un accordo di cessate il fuoco completo e totale, elogiando sia Israele che l’Iran per il loro coraggio nel porre fine alla guerra”.
In caso la proposta andasse a buon fine, Trump non sarebbe che il quinto presidente Usa insignito del Premio Nobel per la Pace: il primo fu Theodore Roosevelt, nel 1906, “per la sua mediazione volta a porre fine alla guerra russo-giapponese e per il suo interesse per l’arbitrato, avendo fornito alla corte arbitrale dell’Aia il suo primo caso”. Nel 1919 il riconoscimento andò a Thomas Woodrow Wilson, promotore della “Società delle Nazioni”, quindi nel 2002 è stata la volta di Jimmy Carter, quando non ricopriva l’incarico presidenziale, “per l’impegno decennale nel trovare soluzioni pacifiche ai conflitti internazionali”. Ultimo premio Nobel tra i presidenti Usa, in ordine di tempo, è stato Barack Obama, nel 2009, “per i suoi straordinari sforzi tesi a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”.
Quella di Buddy Carter, a dire il vero, non è la prima candidatura annunciata per Trump al Nobel: un giorno prima che gli Stati Uniti lanciassero attacchi contro l’Iran, il Pakistan aveva dichiarato la sua intenzione di “raccomandarlo formalmente” al Premio Nobel per la Pace.
Secondo il sito ufficiale del Premio Nobel, sono finora 338 i candidati per l’edizione 2025 del riconoscimento. Tra i ‘concorrenti’ di Trump figurano la cittadina francese Gisèle Pelicot, l’ex segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, i bambini di Gaza e lo scomparso Papa Francesco. Il vincitore sarà annunciato il prossimo 10 ottobre a Oslo.
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Un articolo di Enriko Ceko (responsabile a Tirana dell’amministrazione aziendale e delle tecnologie dell’informazione dell’Istituto Canadese di Tecnologia) ci illumina sulla deriva delle società moderne verso il servilismo e il conformismo, e sul preoccupante declino del pensiero critico. Realtà allarmanti.
— Nel XXI secolo, la società di tutto il mondo sta vivendo profonde trasformazioni nelle strutture politiche, sociali ed economiche. In mezzo a questi cambiamenti, sta emergendo in massa una tendenza profondamente inquietante: l’ascesa del servilismo, ovvero della sottomissione acritica all’autorità, al potere e alle ideologie popolari. Il servilismo, che fino a ieri era considerato un residuo o un’eredità ridotta di epoche passate, sta visibilmente riemergendo nei contesti moderni e postmoderni, spinto dalla globalizzazione, dalla tecnologia e dal declino dei valori del pensiero critico.
Sembra apertamente e direttamente che il servilismo non sia semplicemente un difetto personale o un residuo del passato, ma un problema sistemico che mina le fondamenta dello sviluppo sociale, della democrazia, dell’indipendenza intellettuale e del progresso individuale e sociale nel suo complesso.
Il servilismo, nella sua forma più semplice, riguarda un atteggiamento sottomesso basato su un rispetto eccessivo per l’autorità, il potere e la posizione, spesso a scapito dell’indipendenza personale e del pensiero critico.l Il termine comporta anche idee o connotazioni di rigidità, sottomissione, schiavitù, maldicenza… e implica una mancanza parziale o totale di resistenza alle strutture di potere stabilite e l’essere o cadere in una conformità incondizionata con le aspettative o le richieste di coloro che sono al potere e in autorità , “di coloro che hanno il controllo delle cose” (Runciman, 2014).
Nel contesto contemporaneo, il servilismo si manifesta praticamente come un’accettazione passiva dell’autorità politica, aziendale o ideologica, senza alcun tentativo di sfida concreta e regolativa e/o senza alcuna critica costruttiva. Questa moderna forma di schiavitù (servilismo) non consiste solo nell’obbedire alle leggi o seguire ordini impartiti senza alcuna logica, ma include l’accettazione e l’esecuzione di azioni in accordo con l’ideologia (o le ideologie) delle autorità e il rifiuto del pensiero critico, anche quando appare chiaramente che questa ideologia è sbagliata o presenta sfumature dubbie per quanto riguarda la sua qualità.
Il risultato finale è una società in cui è improbabile o impossibile che gli individui mettano in discussione le narrazioni dominanti, sono molto meno disposti a impegnarsi in dibattiti aperti e sono molto più inclini ad adattarsi allo status quo, anche quando ciò può essere dannoso per il loro individuo. benessere e/o senza dubbio a scapito del progresso sociale.
Nel contesto storico, il servilismo è da sempre una caratteristica della società umana, soprattutto nei sistemi gerarchici in cui il potere è concentrato nelle mani di poche persone. Ad esempio, durante il periodo feudale, i contadini erano spesso soggetti all’autorità dei monarchi o dei proprietari terrieri, che a loro volta si aspettavano che rispettassero senza riserve le loro leggi, i loro ordini e le loro politiche.
Anche nei regimi autocratici, allo stesso modo, lo Stato, o la classe dirigente, si aspetta che il popolo serva lo Stato e i suoi leader, anche se ciò viola direttamente o indirettamente i diritti e/o le libertà del popolo. Gli individui che fanno parte di questo popolo e che in realtà costituiscono la popolazione del Paese in quel territorio in cui questi leader sono alla guida del Paese e della società. In questi contesti storici, il servilismo è stato spesso reso possibile dalla violenza, dalla coercizione, dalla paura, dalla mancanza di accesso alle informazioni e/o dall’assenza di visioni, ideologie e filosofie alternative.
Con la diffusione degli ideali e delle idee democratiche e l’evoluzione delle opinioni sulle libertà e sui diritti umani, si dava per scontato che il servilismo si sarebbe ridotto. I pensatori illuministi come Immanuel Kant (1784)… sottolinearono l’importanza dell’indipendenza individuale attraverso la ragione e la capacità dell’individuo di pensare in modo indipendente dagli altri e dalla classe dirigente. Secondo Kant, la vera illuminazione non nasce dall’accettazione passiva dell’autorità, ma dal coraggio di utilizzare la propria comprensione della situazione e delle situazioni. Ma, nonostante queste visioni e questi ideali di grandi pensatori, il servilismo è riuscito a sopravvivere e a persistere nel corso della storia e, anzi, ha trovato modi, mezzi e mezzi per riapparire in forme moderne, persino più sofisticate.
Nel XXI secolo, nel periodo postmoderno, il servilismo appare in varie forme, tra cui la più evidente è la crescente tendenza degli individui ad adattarsi ai dettami dei mass media e alla cultura media della popolazione. È ben noto che la televisione, i social media e la pubblicità svolgono un ruolo molto importante nella formazione e nella definizione dell’opinione pubblica e delle norme sociali e, di fatto, la stragrande maggioranza degli individui consuma informazioni da fonti fortemente influenzate da interessi aziendali, programmi politici, o sensazionalismo.
Di conseguenza, molti individui accettano passivamente i messaggi a cui sono esposti in modo estremamente volgare e ovvio, spesso senza nemmeno tentare di analizzare criticamente il contenuto dei messaggi e/o senza considerare punti di vista alternativi. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel contesto del discorso politico.
In molti Paesi democratici, gli elettori sono spesso influenzati dai dibattiti e dalla retorica di politici, VIP, celebrità e personaggi dei media, senza mettere in discussione le motivazioni profonde o le politiche che li sostengono. In particolare, i leader populisti sono stati in grado di trarre vantaggio da questa tendenza per promuovere un clima di servilismo, in cui le persone sono disposte a seguire leader carismatici e ad aderire alle loro ideologie, anche quando tali leader possono promuovere politiche dannose o regressive, che è abbastanza evidente ovunque ai nostri giorni. Ricerche e studi sulla psicologia politica suggeriscono che gli individui sono più propensi ad adottare opinioni politiche in linea con il loro gruppo sociale o con il consumo dei media, piuttosto che impegnarsi in un pensiero critico indipendente (Zaller, 1992).
Un altro aspetto del servilismo moderno è il fenomeno diffuso dei “clic” o “clicktivism”, che si riferisce all'”attivismo tramite hashtag”, in cui gli individui esprimono il loro sostegno sui social media per una serie di cause, ma che in realtà non sono mai in grado di prendere in considerazione in modo significativo. azioni riguardanti la questione su cui “cliccano” nel mondo reale in cui vivono. Sebbene queste forme digitali di protesta possano sembrare dimostrazione di impegno per il cambiamento sociale, spesso mancano della profondità e dell’impegno necessari per apportare una trasformazione tangibile, anche per i pochi individui che ne hanno bisogno e/o che cambiano la vita. Questa forma di servilismo passivo comporta l’espressione di accordo con una causa, ma non l’impegno critico nei confronti della sua complessità o la considerazione di soluzioni alternative (Morozov, 2011).
Il ruolo crescente della tecnologia e dei social media ha ulteriormente radicato il servilismo nella società postmoderna. Internet, nonostante il suo potenziale di democratizzazione dell’informazione e di rafforzamento degli individui, ha anche creato un ambiente in cui manipolazione e controllo sono sempre più possibili. Gli algoritmi utilizzati dalle piattaforme dei social media selezionano i contenuti in modo che corrispondano alle convinzioni esistenti degli utenti, portando a opinioni in grandi camere di risonanza in cui gli individui sono esposti esclusivamente a informazioni che in realtà non contano. Ciò non fa che rafforzare le loro opinioni, che sono state costruite in modo errato a causa del attività di questi social media. Ciò scoraggia il pensiero critico e promuove il servilismo, poiché gli individui diventano di fatto solo consumatori passivi di informazioni, invece di essere alla costante ricerca della verità, totale o parziale (Pariser, 2011).
Non solo, ma sono proprio queste piattaforme di social media che spesso alimentano una cultura del conformismo, in cui gli individui sono spinti ad adottare opinioni che sono notevolmente al di sotto della media delle opinioni popolari o che rischiano l’esclusione sociale. Questa dinamica può portare alla soppressione delle voci dissenzienti e alla promozione di visioni superficiali o semplicistiche che non portano da nessuna parte. Questo continuo bombardamento di informazioni, molte delle quali completamente frammentate e incomplete, ma che giungono agli occhi e alle orecchie del pubblico con tutto quel rumore e trambusto, può sopraffare la mente degli individui e rendere molto difficile la valutazione critica delle questioni in questione da parte dell’ pubblico.
In questo contesto, le persone possono diventare individui disposti ad accettare le opinioni loro presentate senza mettere in discussione la verità o le conseguenze di queste opinioni e informazioni errate, false, incomplete e frammentate.
Se osserviamo la questione da una prospettiva psicologica, il servilismo può anche essere visto come una manifestazione di pigrizia cognitiva o di paura del conflitto. Molti individui preferiscono conformarsi all’autorità o a un punto di vista che è al di sotto del pensiero medio della popolazione semplicemente perché questa condizione fornisce un senso di sicurezza e di appartenenza. Questo desiderio di accettazione può essere visto come una forma di cieca obbedienza sociale, in cui gli individui danno priorità all’appartenenza e alla coesione del gruppo rispetto al pensiero indipendente o alla propria integrità morale individuale.
* Enriko Ceko