sabato 9 Novembre 2024

C'è una crepa in ogni cosa. E' da li' che entra la luce (Leonard Cohen)

MILIARDARI CODARDI

(da professionereporter.eu) — Né con Kamala Harris né con Donald Trump: il Washington Post aveva annunciato a pochi giorni dalle elezioni che non appoggerà nessuno dei due aspiranti presidenti, rompendo così con una tradizionale cinquantennale di supporto ai democratici. Una notizia bomba nell’ambiente politico, ma anche nel mercato dell’informazione e oggi si sostanzia in perdite concrete:  nel periodo di riferimento tra il 25 ottobre (data del mancato endorsement) e il 29 ottobre, gli account social del Post hanno perso 28mila follower, mentre il sito web in un solo giorno è sceso da 4,9 milioni a 3,9 milioni di accessi, come sottolinea l’agenzia Arcadia.

Venerdì 25 ottobre The Washington Post aveva scritto in un editoriale firmato dal suo amministratore delegato, William Lewis, che non esprimerà il proprio endorsement –il proprio sostegno- a favore di uno o dell’altro candidato alle prossime elezioni presidenziali Usa del 5 novembre. E che non lo farà più in futuro.

The Washington Post fa endorsement dal 1976 e ha sempre sostenuto candidati Democratici. The Washington Post è il quotidiano che portò il Presidente Nixon alle dimissioni con lo scandalo Watergate. Nelle ultime due elezioni presidenziali tutti i principali giornali americani avevano espresso il proprio sostegno per i candidati Democratici, contro Donald Trump.

Per i quotidiani italiani è singolare che a scrivere un pezzo su una presa di posizione del genere sia l’amministratore delegato del giornale. Inoltre, in Italia, di solito i giornali non fanno palesi endorsement, perché sono tutti palesemente schierati tutto l’anno, in diverse posizioni dello scacchiere politico. Ancora si ricorda però l’editoriale di Indro Montanelli sul Giornale (“Turiamoci il naso e votiamo Dc”) del 1976 e l’endorsement di Paolo Mieli, Direttore del Corriere della Sera, a favore di Romano Prodi e del centrosinistra nel 2006.

Nel suo editoriale l’ad del Washington Post ha motivato la decisione dicendo che il giornale vuole tornare “alle sue radici” ed è andato indietro fino al 1960: in un editoriale The Washington Post diceva che “è più saggio per un giornale indipendente nella capitale della nazione evitare endorsement formali”.

Dopo la pubblicazione dell’editoriale di Lewis – secondo la ricostruzione del Il Post, i rappresentanti sindacali dei giornalisti in un comunicato si sono detti “molto preoccupati” e l’opinionista Robert Kagan si è dimesso per protesta. Sedici opinionisti della redazione hanno pubblicato un articolo in cui definiscono la decisione “un terribile errore”, sostenendo che un giornale indipendente debba poter essere libero di non fare endorsement, ma non ora, poiché uno dei due candidati “minaccia direttamente la libertà di stampa e i valori della Costituzione”. Parlando di Trump.

L’ex direttore del Washington Post Marty Baron ha scritto sui social che rinunciare agli endorsement è un “gesto codardo, con la democrazia come vittima”. Altre critiche sono arrivate online da commentatori e politici, e al giornale sono arrivate mail di protesta dagli abbonati. Bob Woodward e Carl Bernstein, i due ex giornalisti dell’inchiesta Watergate, hanno definito la decisione “sorprendente e deludente”.

Alcuni giornalisti del Washington Post che hanno chiesto di rimanere anonimi hanno detto che i dirigenti del giornale hanno preso la decisione di sospendere gli endorsement all’ultimo momento e che era già pronta la bozza per un editoriale a sostegno di Kamala Harris.

Sempre secondo fonti interne citate dallo stesso Washington Post, la decisione di cambiare approccio sarebbe stata presa da Jeff Bezos, proprietario del giornale dal 2013. Jeff Bezos è il capo di Amazon e della società spaziale Blue Origin: la decisione è stata interpretata come una volontà di mantenere buoni rapporti con chiunque debba vincere le elezioni. The Washington Post è inoltre da tempo impegnato ad aumentare il suo numero di abbonati per fronteggiare una lunga crisi, e punta dunque a raggiungere anche persone con idee conservatrici.

Anche Patrick Soon-Shiong – proprietario del Los Angeles Times dal 2018– ha deciso che il suo giornale non farà endorsement.Robert Greene, premio Pulitzer, e la collega Karin Klein hanno annunciato le dimissioni, all’indomani dell’addio al giornale di Mariel Garza, Capo della pagina degli editoriali, che già aveva steso la bozza in appoggio della Harris, bloccata da Soon-Shiong. “Capisco che e’ la decisione del proprietario -ha detto Greene- Ma in questo caso è particolarmente doloroso, perché uno dei candidati, Donald Trump, ha dimostrato la sua ostilità ai principi chiave del giornalismo: il rispetto per la verità e per la democrazia”.   

Il Los Angeles Times dal 2008 ha sostenuto i candidati del partito Democratico: Barack Obama, Hillary Clinton e Joe Biden. Lo stesso discorso fatto per Bezos è stato fatto per Soon-Shiong, che da imprenditore nell’industria farmaceutica ha interesse a mantenere buoni relazioni con Repubblicani e Democratici.

Gli stessi giornalisti del Post hanno rivelato che l’endorsement era già stato deciso dall’editorial board del quotidiano a favore di Kamala Harris e poi cancellato su richiesta del proprietario del giornale, Jeff Bezos, il proprietario di Amazon,

Non tutte le cancellazioni degli abbonamenti hanno effetto immediato. Tuttavia, la cifra rappresenta circa l’8% della tiratura a pagamento del giornale di circa 2,5 milioni di abbonati, che include anche la versione cartacea. Il numero di cancellazioni ha continuato a crescere ancora lunedì pomeriggio. Diversi giornalisti del Post hanno dichiarato che i loro parenti sono tra coloro che hanno annullato gli abbonamenti.

Nell’editoriale scritto da Bezos sul Post lunedì sera, c’è la convinzione che un giornale autorevole debba risultare sempre indipendente: “Gli endorsement presidenziali non fanno nulla per far pendere la bilancia di un’elezione. Nessun elettore indeciso in Pennsylvania dirà: “Scelgo l’endorsement del Newspaper A”. Nessuno. Ciò che gli endorsement presidenziali fanno in realtà è creare una percezione di parzialità. Una percezione di non indipendenza. Mettere fine a questo è una decisione di principio, ed è quella giusta. Eugene Meyer, editore del Washington Post dal 1933 al 1946, la pensava allo stesso modo, e aveva ragione”, ha scritto il proprietario della testata ed ex amministratore delegato di Amazon, Jeff Bezos.

In questi mesi, come sempre, il giornalisti del Post hanno rivelato ripetuti casi di illeciti e accuse di illegalità da parte di Trump e dei suoi soci. La pagina editoriale, che opera separatamente, ha definito Trump una minaccia all’esperimento democratico americano. Tre delle prime 10 storie più viste sul sito web del Post domenica erano articoli indignati per la decisione di Bezos. Il più letto in assoluto l’articolo dell’umorista Alexandra Petri, dal titolo “Tocca a me, l’umorista, sostenere Harris”. Più di 174.000 persone lo hanno letto online. All’inizio del 2024 l’ editore del Post aveva dichiarato un guadagno di 4.000 nuovi abbonati.

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